1.12 La scoperta dei selvaggi
In tutti i popoli si è affermata, prima o poi, la tendenza a ritenere inferiori i gruppi umani che apparivano "diversi". Anche i romani avevano condiviso questa concezione, attenuandola però fortemente per il solo fatto di aver fondato un impero "supernazionale" in cui, a partire dal 212 d.C. (editto di Caracalla) quasi tutti gli abitanti erano cittadini di pieno diritto. La caduta dell'Impero romano e le grandi migrazioni dei popoli germanici che s'insediarono in Europa, avevano poi dato origine a una civiltà in gran parte nuova, cui i "barbari" avevano contribuito in misura determinante. Durante il Medioevo il confronto con la civiltà araba aveva messo inoltre in luce, accanto alle diversità, forti somiglianze: non va dimenticato che gran parte della scienza d'età classica fu trasmessa al Medioevo cristiano proprio dagli arabi.
Ma ora, di fronte alle popolazioni americane, gli europei si trovavano di fronte a una situazione completamente nuova: "Il fatto più nuovo delle scoperte, sul piano delle realtà umane e sociali - ha scritto Rosario Romeo - è per gli europei l'apparizione del "selvaggio". Durante il Medioevo, infatti, i contatti con le popolazioni extraeuropee si erano limitati quasi esclusivamente a quelli con arabi e turchi, che nessuno poteva pensare di definire "selvaggi" e anche le popolazioni dell'Estremo Oriente e dell'Asia Centrale raggiunte da qualche solitario viaggiatore erano qualcosa di assai diverso da quelle di cui ora si veniva a conoscenza. E si tratta, per di più, di un fatto constatato quasi esclusivamente in America, giacché fra i paesi apertisi agli europei nell'età delle scoperte, solo alcune zone dell'Africa e le isole del Pacifico meridionale erano abitate da popolazioni definibili come "selvagge"".
L'atteggiamento degli europei nei confronti delle popolazioni americane fu caratterizzato, fin dall'inizio, da un totale rifiuto. Il frate domenicano Tommaso Ortiz manifestò in questi termini, nel 1524, la sua convinzione che gli indigeni americani dovessero essere ridotti tutti in schiavitù:
Gli uomini di terra ferma delle Indie mangiano carne umana [...] più di qualunque altra popolazione. Tra di loro non esiste alcuna giustizia, vanno in giro nudi, non provano né amore né vergogna, son come asini, stupidi, dementi, insensati; non gli importa nulla di uccidere o di essere uccisi; non osservano la verità se non quando è a loro vantaggio; sono incostanti, non sanno cosa sia una decisione; sono molto ingrati e amici delle novità; amano ubriacarsi, ed hanno vini di diverse erbe, frutta, radici, grano; si ubriacano anche col fumo e con certe erbe che fanno loro perdere il senno; sono bestiali nei vizi; i giovani non hanno alcuna obbedienza o riguardo verso i vecchi, né i figli verso i padri; sono incapaci di apprendimento e di correzione; sono traditori, crudeli, vendicativi al punto da non perdonare mai; ostilissimi alla religione, pigri, ladri, bugiardi, gretti e limitati nel giudizio, non osservano né fede né ordine; i mariti non serbano fedeltà alle mogli né le mogli ai mariti; sono stregoni, indovini, negromanti; sono codardi come lepri, osceni come porci.
Valutazioni come questa, comuni alla grandissima maggioranza degli europei che per primi conobbero il Nuovo Mondo offrivano una giustificazione alle guerre di rapina, alle deportazioni, al genocidio che i conquistatori avevano appena cominciato a mettere in pratica. La distruzione degli indigeni rientrava dunque in un piano provvidenziale; tra gli altri delitti essi praticavano infatti riti mostruosi in onore del diavolo, che sembrava aver posto la sua dimora in quelle terre rigogliose e incantevoli.
Non mancarono tuttavia voci discordi. La più nobile di tutte è quella di
Bartolomé de Las Casas. Figlio di un compagno di viaggio di Cristoforo Colombo, nel 1502 egli si recò nei Caraibi per prendere possesso delle piantagioni lasciategli dal padre. Qui, a contatto con le atrocità della dominazione spagnola, egli decise di farsi frate e di dedicare la propria vita alla causa degli indios. Nella sua lunga attività, che lo portò alla carica di vescovo di Chiapa in Guatemala, Las Casas non risparmiò le denunce e le accuse contro i metodi dei conquistadores:
Tutta questa gente di ogni genere fu creata da Dio senza malvagità e senza doppiezze, obbedientissima ai suoi signori naturali e ai cristiani, ai quali prestano servizio; la gente più umile, più paziente, più pacifica e quieta che ci sia al mondo, senza alterchi né tumulti, senza risse, lamentazioni, rancori, odi, progetti di vendetta. Sono nello stesso tempo la gente più delicata, fiacca, debole di costituzione, che meno può sopportare le fatiche e che più facilmente muore di qualunque malattia [...]. Sono anche gente poverissima, e che non possiede, né vuole possedere, beni temporali; e per questo non è superba, né ambiziosa, né cupida. Il loro cibo è tale che quello dei santi padri nel deserto non pare essere stato più misero, né più spiacevole e povero [...]. Tra queste pecore mansuete, dotate dal loro pastore e creatore delle qualità suddette, entrarono improvvisamente gli spagnoli, e le affrontarono come lupi, tigri o leoni crudelissimi da molti giorni affamati.
L'opera di Las Casas fu particolarmente apprezzata dalla corona di Spagna, che trovò in essa argomenti solidi per contrastare l'iniziativa privata dei conquistadores che cercavano di trarre dalle nuove terre un rapido e facile guadagno, anche a costo di esaurirne per sempre le ricchezze umane e naturali. La corona spagnola, sostenuta dalla grande aristocrazia terriera, sosteneva invece la necessità di una politica più razionale, basata su insediamenti stabili e su un'abile utilizzazione della manodopera indigena. Ma il Nuovo Mondo era troppo lontano e il potere dei conquistadores troppo forte perché questa esigenza riuscisse a imporsi.
Il problema del recupero delle popolazioni americane e della loro conversione al cristianesimo fu avvertito molto presto dalla Chiesa cattolica. All'inizio i
missionari dovettero affrontare innumerevoli difficoltà: "Il popolo - racconta uno di loro - era costituito da persone simili ad animali privi di ragione. Non potevamo portarli nel recinto o nella congregazione della Chiesa, né nelle classi di dottrina, né alle prediche, senza che fuggissero come il diavolo fugge dalla croce. Per più di tre anni scapparono davanti ai preti come animali selvaggi". Certamente agli indigeni la croce del missionario apparve insieme alla spada del conquistatore e la distinzione, soprattutto in un primo momento, non dovette essere facile. La religione cattolica era inoltre diversissima dai culti locali a carattere prevalentemente magico-animistico, e non era facile tradurre la teologia cristiana nel lessico e negli schemi concettuali degli indios.
I rimedi furono drastici. Nel 1531 il vescovo Zumarraga si vantava di aver distrutto cinquecento templi aztechi e ventimila idoli. Intanto lo stesso imperatore Carlo V consigliava di utilizzare le pietre dei templi per edificare nuove chiese. Migliaia di indios furono battezzati a viva forza sotto la minaccia della prigione o della tortura; in moltissimi casi si procedette a condanne a morte. In questa secolare opera di evangelizzazione vanno tuttavia distinte due fasi: nella prima, caratterizzata dall'attività degli ordini francescano e domenicano emerse la preoccupazione di collegare in qualche modo l'emancipazione spirituale delle masse indigene alla tutela delle loro condizioni materiali; nella seconda, contrassegnata dall'attività del clero secolare, venne in luce un'avidità e una crudeltà che non aveva nulla da invidiare a quella degli stessi conquistatori.
In queste condizioni si comprende bene come la cristianizzazione degli indios sia rimasta a lungo superficiale; i vecchi culti sopravvissero identificandosi nei nuovi: le divinità solari furono assimilate al Cristo, le dee-madri, come la divinità peruviana della Terra, furono assimilate alla Vergine.
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