5.2 Il sacco di Roma
Schiacciato dalla superiorità dell'avversario, Francesco I cercò di trarre a sé tutte le potenze che, per un motivo o per l'altro, avevano di che temere dall'eccessivo rafforzamento di Carlo V. Diede quindi vita, nel 1526, a un'alleanza antiasburgica, la
Lega di Cognac, cui aderirono Firenze, Venezia, il Ducato di Milano (che cercava di sottrarsi al suo troppo invadente protettore), il re d'Inghilterra Enrico VIII (in un primo momento alleato dell'imperatore ma ora intimorito dalla prospettiva di diventare la piccola appendice nordica di un Impero gigantesco). Vi aderì anche il pontefice Clemente VII (1523-34), un altro Medici. Il papa era stato in precedenza uno dei maggiori sostenitori di Carlo V, che si era impegnato a fondo nel difendere il cattolicesimo dagli attacchi di Martin Lutero (
4.2). Ma i successi troppo rapidi dell'imperatore avevano ravvivato nel pontefice i timori di tutti i papi: un Impero troppo potente nella penisola avrebbe soffocato i territori della Chiesa.
La decisione del pontefice ebbe gravissime conseguenze. Nel 1527 una massa di 12.000 mercenari al servizio dell'imperatore, radunata nel Tirolo meridionale, scese in Italia. Poi, esasperati per il mancato pagamento del soldo arretrato, posero di loro iniziativa l'assedio a Roma e la occuparono (maggio 1527). I mercenari affrontarono e distrussero un piccolo esercito messo in campo da Giovanni dei Medici (il famoso Giovanni delle Bande Nere). La maggior parte di queste schiere era composta da lanzichenecchi tedeschi (dalle parole tedesche Land e Knecht, letteralmente "servo del paese"), ben noti per la loro passionale fede luterana, l'odio accanito verso la Chiesa romana, la ferocia nel combattere. Per circa otto lunghissimi mesi il pontefice, asserragliato nell'imprendibile fortezza di Castel Sant'Angelo, assistette al saccheggio della città, all'uccisione dei cittadini, al linciaggio e all'umiliazione dei cardinali, alla profanazione delle chiese, alla distruzione di innumerevoli opere d'arte. Era dai tempi del famoso sacco di Alarico del 410 d.C. che Roma non subiva un simile affronto.
L'impressione fu enorme in tutta Europa. Nel mondo cattolico prevalse lo sgomento. Nei paesi dove la Riforma aveva trionfato, l'avvenimento fu invece interpretato come il segno tangibile della punizione divina abbattutasi sulla corrotta sede del papato.
Nella circostanza del sacco di Roma si vide anche quanto fragili e occasionali fossero state le motivazioni che avevano spinto i vari Stati e staterelli italiani ad aderire alla Lega di Cognac: di fronte alla disperata situazione del papa - che pure era un alleato - Venezia occupò alcuni territori pontifici e s'impadronì dei porti di Cervia e di Ravenna; Genova passò apertamente dalla parte di Carlo V; gli Estensi occuparono Parma, Piacenza e Ferrara; i fiorentini cacciarono i Medici (che erano imparentati col papa) e proclamarono una libera repubblica. Tutti rincorrevano i loro interessi particolari, abbandonandosi ai più rapidi e spregiudicati voltafaccia.
Mentre i lanzichenecchi sognavano di catturare il pontefice e magari di abbattere la Chiesa cattolica, nella sua lontana sede di Burgos, in Castiglia, l'imperatore temporeggiava: ufficialmente aveva condannato gli eccessi della soldatesca, ma nel concreto non faceva nulla per indurre i mercenari a togliere l'assedio. Carlo V era un uomo devoto e nessuno avrebbe messo in dubbio la sincerità della sua fede cattolica, ma non dimenticava l'affronto che il papa gli aveva fatto aderendo alla Lega di Cognac. A prendere tempo lo spingevano anche alcuni suoi consiglieri che ritenevano opportuno sfruttare la drammatica circostanza dell'occupazione di Roma per imporre finalmente quell'ampia riforma della Cristianità che il pontefice tardava a intraprendere e per ridurre il papa alle sole funzioni spirituali. Non mancavano, infine, le difficoltà pratiche: per togliere l'assedio i lanzichenecchi reclamavano il pagamento del soldo arretrato mentre alla corte imperiale, impegnata fino in fondo in una politica di potenza, il denaro - malgrado l'apporto delle miniere americane - non abbondava mai. Mancava, in particolare, alla corona di Spagna quella solida organizzazione finanziaria che, sola, avrebbe potuto garantire un'adeguata utilizzazione delle risorse.
Il prolungarsi dell'assedio finì, paradossalmente, per giovare al pontefice. La situazione, infatti, divenne pesante per gli stessi assedianti: i viveri e i generi di prima necessità scarseggiavano, la carestia incombeva, la pestilenza faceva vittime sempre più numerose; le risse tra i lanzichenecchi e gli altri mercenari (soprattutto spagnoli e italiani) erano all'ordine del giorno. All'ebbrezza del saccheggio e delle rapine erano subentrate la noia e la fame.
Intanto cresceva ovunque, tranne che nelle regioni luterane, la protesta per la sorte del pontefice e si riteneva imminente un'azione militare francese per liberarlo. Carlo V e il papa intensificarono le trattative, che si conclusero nel febbraio del 1528; dopo dieci mesi di occupazione l'assedio fu tolto (il papa aveva potuto abbandonare la città due mesi prima).
Il trattato di Barcellona del 1529 perfezionò l'intesa: Carlo V s'impegnò a far restituire al papa tutte le terre che gli erano state sottratte e a ripristinare in Firenze il governo dei Medici (che vi rientrarono dopo un lungo assediò nel 1530) e ottenne in cambio il riconoscimento dei suoi possessi d'Italia e l'incoronazione dalle mani del papa, che avrebbe consacrato definitivamente il suo ruolo e il suo prestigio. La penisola italiana entrava, così, in una fase politicamente opaca, caratterizzata dal pieno asservimento alla volontà della potenza spagnola e imperiale.
Nella
pace di Cambrai dello stesso anno (detta anche pace delle due dame perché vi ebbero un ruolo di rilievo Margherita d'Austria, zia di Carlo V e Luisa di Savoia, madre di Francesco I), i due sovrani divisero le loro rispettive sfere d'influenza: l'imperatore rinunciava, non senza un profondo rancore, alle sue pretese sulla Borgogna, mentre il re di Francia gli riconosceva il possesso di Milano (il Ducato restò a Francesco Sforza, con la condizione che alla sua morte sarebbe stato annesso dagli spagnoli).
Il trionfo di Carlo V fu sanzionato con l'incoronazione ricevuta a Bologna dalle mani del pontefice nel 1530, al cospetto dei rappresentanti di quasi tutti gli Stati italiani.
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