19.10 Le Repubbliche "giacobine" in Italia
Fin dalla primavera del 1796 Bonaparte aveva messo mano all'organizzazione politica dell'Italia settentrionale. In questo mostrò un'abilità pari a quella militare. Contemporaneamente fu attentissimo a utilizzare tutti i mezzi di comunicazione del tempo - stampa, avvisi, proclami, immagini - per propagandare i suoi successi, per sostenere i suoi piani, per imporsi all'opinione pubblica e ai politici di Parigi. Un disegno che rispondeva all'esigenza di mostrare, accanto a quelli militari, anche i suoi meriti civili.
Nel dicembre 1796 fu creata in Emilia e Romagna la
Repubblica cispadana; nel giugno 1797 si formarono la
Repubblica ligure e, sui territori occupati della Lombardia, la
Repubblica cisalpina, con la quale a luglio si fuse la Cispadana. A questa prima fase, compiuta sotto il diretto controllo di Bonaparte (che rientrò in Francia nel novembre 1797), ne seguì una seconda tra il '98 e il '99. Nel febbraio 1798 i francesi intervennero a Roma (dove, nella repressione di un tentativo giacobino, era stato ucciso un generale francese) e proclamarono la
Repubblica romana, che comprendeva il Lazio, l'Umbria e le Marche. Pio VI fu deposto e trasferito in Toscana. Portato in seguito in Francia, e dichiarato prigioniero di Stato, morì nel 1799.
Alla fine del '98 la riapertura delle ostilità contro la Francia da parte delle potenze della II coalizione (formatasi dopo la spedizione in Egitto,
19.11) indusse il Regno di Napoli ad attaccare la Repubblica romana. Dopo qualche iniziale successo, le truppe borboniche furono respinte e Napoli fu occupata dal generale Championnet, che qualche giorno dopo vi proclamò la
Repubblica partenopea (gennaio 1799).
Passate alla storia come Repubbliche giacobine (un nome imposto dagli avversari), le Repubbliche italiane non ebbero in realtà mai caratteristiche tali da richiamare il radicalismo rivoluzionario. Le Costituzioni repubblicane furono tutte modellate sulla Costituzione francese del '95: alcune furono direttamente imposte dai francesi, come quella cisalpina (redatta da Bonaparte stesso) e quella romana; altre furono preparate da commissioni italiane: quella napoletana (stesa sotto la direzione di Mario Pagano) fu, per il suo contenuto democratico, quella che più si allontanò dal modello francese. Due costituzioni, la ligure e la cispadana, non rispettarono il principio della separazione fra Chiesa e Stato, presente nel testo del '95, ma dichiararono il cattolicesimo religione di Stato.
Sia Bonaparte che i suoi successori in Italia si appoggiarono ai nobili e ai borghesi di orientamento moderato, salvo utilizzare contro di essi, al momento opportuno, gli elementi più radicali o "giacobini". Il controllo dei francesi si tradusse anche nella nomina diretta dei membri degli organi legislativi e di governo, nonché nella loro sostituzione o reintegrazione a seconda del maggiore o minore allineamento alla oscillante politica del Direttorio o a quella dei comandanti militari in Italia. Nella Repubblica cisalpina, nel corso del '98, i francesi misero in atto ben quattro "colpi di Stato".
La presenza e l'egemonia francese diedero tuttavia l'avvio a una serie di profonde riforme anche al di fuori dell'ambito dell'organizzazione politica; come l'introduzione dello stato civile, l'abolizione di maggiorascati e fidecommessi (che impedivano il frazionamento e la vendita dei beni di origine feudale), la soppressione degli enti religiosi e l'inizio della vendita dei beni nazionali. Alcune di queste riforme rimasero allo stato di pura enunciazione, soprattutto quelle miranti ad una modifica degli assetti proprietari nelle campagne e alla costituzione di una diffusa piccola proprietà contadina. Le proposte in questa direzione avanzate nella Repubblica romana - dove, soprattutto nella campagna intorno a Roma, era presente un'imponente proprietà latifondistica - non ebbero alcun seguito.
Altrettanto e forse più significativo delle realizzazioni politiche e amministrative fu, negli anni '96-'99, lo sviluppo di un vivacissimo dibattito che si svolse sui giornali (come il "Termometro politico della Lombardia", il "Monitore italiano", il "Monitore di Roma" e moltissimi altri) e in una diffusa pubblicistica. Utopisti e riformatori, rivoluzionari e moderati (come Melchiorre Gioia, Matteo Galdi, Enrico Michele l'Aurora, e il più radicale Vincenzio Russo) si impegnarono in una riflessione sulle forme politiche, sui problemi economici, sui possibili destini unitari della penisola. Consapevoli del limitato consenso di cui potevano godere fra i ceti popolari (ne è conferma la costante attenzione per l'istruzione pubblica), tanto i moderati che i giacobini ritennero di dover utilizzare i ristretti margini consentiti alla loro azione dagli interessi francesi. Si venne così formando un personale politico che troveremo attivo durante l'impero napoleonico e, in parte, anche negli anni della Restaurazione assolutista.
I ceti popolari rimasero sempre o estranei o avversi al dominio francese. Nell'aprile 1797, ad esempio, furono assalite le truppe francesi di stanza a Verona (le Pasque veronesi): un episodio che servì a giustificare il duro intervento di Bonaparte contro la Repubblica di Venezia; a Napoli, nel 1799, i popolani ("lazzaroni") si opposero violentemente all'ingresso dei francesi in città. Questa estraneità e ostilità si estese anche alle Repubbliche giacobine. Quando il controllo francese sull'Italia cominciò a vacillare, alla fine del '98 e nel '99, si registrarono numerosi episodi di sollevazioni popolari (la cosiddetta insorgenza).
Nell'Italia meridionale, i contadini non videro realizzarsi alcun vantaggio immediato alle loro durissime condizioni per opera del nuovo regime repubblicano: le norme che abolivano i diritti feudali e garantivano la continuità degli usi civici giunsero troppo tardi (alla fine di aprile 1799). Fu agevole quindi per il cardinale Fabrizio Ruffo, emissario dei Borbone, sollevare i contadini e guidare l'armata della Santa Fede (di cui facevano parte anche bande di briganti) contro la Repubblica giacobina. La conquista di Napoli ad opera dei sanfedisti (giugno 1799) consentì il ritorno dei Borbone che effettuarono una durissima repressione. Fra gli altri furono giustiziati Mario Pagano, Vincenzio Russo, Francesco Caracciolo ed Eleonora de Fonseca Pimentel, animatrice del "Monitore napoletano". La fine prematura della Repubblica partenopea (durata solo sei mesi) diede spunto allo scrittore politico Vincenzo Cuoco per rivolgere pesanti accuse all'astrattismo dei patrioti e al carattere "passivo" della rivoluzione napoletana (nel celebre Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, del 1801). Certo è che l'episodio sanfedista testimoniava della difficoltà di coinvolgere le masse contadine nella rivoluzione "borghese", difficoltà che anche la Francia conosceva in quegli anni con l'endemica ribellione vandeana.
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