3.5 Questione della lingua, coscienza letteraria
La formazione di elementi di coscienza nazionale si manifestò soprattutto, tra il '300 e il '500, nella sempre più chiara consapevolezza che l'Italia fosse un paese dotato di una sua specificità linguistica e letteraria.
In Italia la frantumazione politica determinò una duratura frammentazione linguistica e, contrariamente a quanto avvenne in altri paesi europei, nessuna lingua, tra quelle più diffuse, riuscì a imporsi come lingua "nazionale", prevalente su tutte le altre. Diverso fu il caso del cosiddetto volgare illustre, lingua letteraria usata per esprimere appunto contenuti di alta cultura, principalmente in campo poetico. Dopo l'esperienza, importante ma limitata, della prima lingua letteraria volgare italiana, quella elaborata dalla famosa scuola poetica siciliana alla corte di Federico II, s'impose decisamente il tipo linguistico toscano, che acquisì presto una posizione di primato in tutta la penisola. Questo successo fu dovuto a vari fattori: il toscano era più vicino degli altri volgari italiani al latino, e questo lo rendeva più facile da usare e maggiormente accetto alle persone colte; era la lingua parlata nella regione economicamente più avanzata della penisola; era la lingua nella quale si erano espressi i maggiori tra gli scrittori italiani del tempo, da Dante a Petrarca, a Boccaccio; alla sua diffusione contribuì infine l'uso della stampa.
Fu proprio
Dante a elaborare la prima riflessione critica sull'identità linguistica e letteraria italiana. Nel De vulgari eloquentia - un'opera di straordinaria erudizione e ricchezza problematica, scritta in latino perché non sfuggisse all'attenzione degli uomini di cultura - Dante procedette a una classificazione dei dialetti italici e all'individuazione di un volgare illustre, comune a tutti i popoli della penisola e in grado di assumere sempre più il ruolo di lingua dell'alta cultura nazionale, cioè di lingua letteraria comune all'aristocrazia della nazione italiana: "Questo, che appartiene all'Italia intera - disse Dante - si chiama volgare italiano. Di esso infatti si sono serviti i maestri illustri che in Italia hanno poetato in lingua volgare". Quanto nel De vulgari eloquentia è espresso in forma scientifica e teorica, è realizzato in forma poetica nella Divina Commedia; la lingua del poema è infatti caratterizzata al tempo stesso da una forte impronta toscana e da un evidente progetto linguistico unitario e italiano. Nel complesso dell'opera dantesca l'affermazione dell'esistenza di una grande tradizione letteraria italiana era funzionale alla necessità di contrastare le altre lingue e le altre letterature (soprattutto quella francese) allora predominanti. Dante, infatti, comprese lucidamente che solo l'impegno dei poeti - in mancanza di un'unità politica della penisola - avrebbe potuto attribuire alla cultura del paese la forza per opporsi all'egemonia culturale dei paesi stranieri, dove l'esistenza di una monarchia unica era anche un forte incentivo all'unificazione linguistica e culturale. Di fronte allo spettacolo della frantumazione politica, i letterati avrebbero garantito l'unità nazionale sotto il profilo culturale. Divisi nei vari centri che si spartivano il potere nella penisola e spesso impegnati in prima persona nelle vicende politiche dei loro Stati, essi erano tuttavia uniti dall'uso di una comune lingua scritta e dall'appartenenza a una comune cultura. Prima che politica, l'idea dell'unità d'Italia fu dunque una creazione letteraria.
La diffusione dell'Umanesimo in Italia e il successivo irradiamento del Rinascimento in Europa aggiunsero a questa impostazione di base il senso di un'orgogliosa superiorità intellettuale. Quando, alla fine del '400 e agli inizi del '500, gli Stati della penisola ebbero il trauma di scoprirsi quasi inermi di fronte all'armata di Carlo VIII e degli altri eserciti stranieri che seguirono il suo esempio, la consapevolezza di questa inferiorità militare fu compensata proprio dalla rivendicazione della superiorità intellettuale dell'Italia, cui il mondo doveva inchinarsi.
Nato come lingua dei letterati, il volgare nazionale italiano era una lingua della cultura scritta, separata dalle esperienze linguistiche delle popolazioni della penisola, che continuarono a esprimersi nei dialetti locali oppure nelle lingue straniere che ancora si parlavano in Italia: il francese e il provenzale in alcune zone dell'Italia settentrionale, il catalano in alcune zone della Sicilia e della Sardegna sottoposte all'influsso aragonese, il greco in alcune zone della Calabria e della Puglia dove l'influenza bizantina era rimasta più a lungo vitale. L'importante funzione culturale del volgare illustre non deve quindi far perdere di vista questa sua scissione rispetto all'evoluzione delle varie lingue, indigene e straniere, che effettivamente si parlavano nella penisola. La lingua parlata delle popolazioni italiane rimase a lungo (fin quasi ai giorni nostri) tutt'altra cosa rispetto alla lingua scritta.
La funzione unificante svolta dal volgare illustre fu svolta anche, per motivi diversi, dal
latino, che aveva mantenuto sempre, accanto al volgare illustre, un ruolo di primo piano. Il latino restava sempre la lingua della Chiesa e delle scuole, ma con l'Umanesimo e il Rinascimento esso divenne anche, con l'ausilio della filologia, il veicolo di una rinnovata conoscenza dei classici. Proprio in quanto lingua dell'antica Roma il latino assumeva, in Italia più che altrove, un richiamo potenzialmente nazionale. L'antico primato culturale di Roma riviveva e si rinnovava nel nuovo primato culturale dell'Italia, proprio come il latino antico riviveva e si rinnovava nel latino degli umanisti.
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