2.2 Il costo della vita e la produzione agricola
Le cause dell'aumento della popolazione verificatosi nel corso del XVI secolo sono ancora alquanto oscure. Non lo sono però gli effetti. Il più evidente è l'aumento del costo della vita, che già i contemporanei segnalavano con preoccupazione: per circa cento anni i prezzi dei generi di largo consumo aumentarono costantemente e spesso in modo brusco, intaccando pesantemente il potere d'acquisto delle popolazioni.
L'ondata degli aumenti non riguardò tutti i paesi contemporaneamente (essa interessò prima la Spagna, poi la Francia, l'Italia, i Paesi Bassi e l'Inghilterra), non colpì tutti i paesi nella stessa misura (l'inflazione toccò i livelli più alti in Spagna e si ridusse man mano che si procede verso oriente) e non interessò in uguale misura tutti i generi di prima necessità, ma il fenomeno fu così rilevante che gli storici moderni lo hanno definito, non del tutto a torto, come una
rivoluzione dei prezzi.
La spiegazione tradizionale del fenomeno, risalente a un contemporaneo, il giurista e scrittore politico francese Jean Bodin (1530-96), collegava l'aumento dei prezzi al massiccio afflusso di metalli preziosi provenienti dalle Americhe: l'accresciuta offerta di metalli avrebbe provocato il rincaro dei generi di prima necessità. Gli storici dell'economia hanno però constatato che i prezzi cominciarono a salire diversi decenni prima che i metalli americani affluissero in quantità significativa in Europa. Oggi si ritiene, pertanto, che la "rivoluzione dei prezzi" vada piuttosto spiegata con l'aumento della popolazione e che l'afflusso di metalli abbia avuto incidenza solo in un secondo momento, come fattore che aggravò una tendenza già in atto.
Il nesso tra l'aumento della popolazione e l'aumento dei prezzi emerge con chiarezza da una circostanza: le più alte impennate furono registrate dai prezzi dei generi alimentari, e soprattutto dall'alimento di base, i cereali, che venivano maggiormente richiesti da una popolazione in continua crescita: il costo del grano, dell'orzo, della segale, aumentò anche di quindici volte nel giro di pochi decenni. Ne derivò un vasto processo di riconversione delle colture, una "cerealizzazione" dell'agricoltura che riguardò tutte le regioni europee: si ararono i pascoli, si sradicarono i vigneti, si distrussero le foreste per impiantare campi a grano. L'aumento dei prezzi dei generi alimentari dipendeva dal fatto che la produzione di questi generi non teneva il passo con l'aumento della popolazione. In altre parole: il numero degli uomini aumentò più velocemente della produzione dei beni necessari a sfamarli. Anche se non si riuscì a tenere in equilibrio il rapporto produzione-popolazione, gli uomini del XVI secolo s'impegnarono in una dura lotta per accrescere la quantità delle loro risorse, e vi riuscirono. Questa crescita non fu dovuta, tranne che in casi e in situazioni eccezionali, a un miglioramento delle rese agricole. In gran parte dell'Europa le rese sono rimaste infatti complessivamente stabili dal 1300 fino alla metà del secolo scorso. La media europea per i cereali si manteneva come sempre intorno a una resa di 1 a 4.
L'aumento della produzione si ottenne piuttosto estendendo gli spazi coltivati. In alcune regioni fu perfezionato e modificato il vecchio sistema della rotazione triennale dei campi, cercando di ridurre, attraverso cicli di rotazione pluriennali (anche di sei anni) e attraverso il massiccio impiego della concimazione (laddove c'era disponibilità di animali), la quantità di suolo destinata al maggese (cioè lasciata a riposo perché riprendesse la sua fertilità naturale). Il fenomeno della riduzione del maggese esprime un'importante tendenza dell'agricoltura, ma ebbe un'incidenza complessiva assai limitata in questo periodo (
15.4). Ben più importante fu la messa in coltivazione di nuove terre.
Si tratta prevalentemente di terreni che erano stati già coltivati prima del 1300, al momento della grande espansione demografica ed economica tardomedievale, e che erano stati abbandonati in conseguenza della crisi del '300. Nel 1500 le popolazioni contadine ripercorsero dunque un cammino che secoli prima era stato già compiuto e interrotto: furono coltivati i pascoli, si disboscarono le foreste, si prosciugarono gli acquitrini, si dissodarono le sterpaglie. In Italia si procedette a numerose bonifiche: alcune fallirono, altre ebbero successo. La bonifica intrapresa in Maremma e in Val di Chiana dal granduca di Toscana, Ferdinando I dei Medici (1587-1609) offrì nuovi campi alla cerealicoltura. Le iniziative della Repubblica Veneta portarono al risanamento delle terre fra Venezia e Mestre e della bassa valle del Piave: si trattò di opere molto complesse, consistenti in un sistema di dighe, di prese d'acqua, di canali di distribuzione. Il viceré di Napoli, Pietro di Toledo, promosse la bonifica della Terra di Lavoro, un'ampia zona paludosa compresa tra Nola, Aversa e il mare, che diede agli agricoltori campani ottime terre. Altre bonifiche furono effettuate nei dintorni di Brescia (1534), Aquileia (1561), Ferrara (1598).
Progressi considerevoli furono raggiunti nel settore dell'irrigazione, che rese coltivabili nuovi campi. In Lombardia fu realizzata un'opera d'avanguardia, che suscitò lo stupore e l'ammirazione dei contemporanei: una rete fittissima di canali e di opere idrauliche che consentì l'irrigazione di quasi tutta la regione compresa tra Milano, Pavia, il Ticino e l'Adda. Lo scenario, descritto dai viaggiatori, si svolgeva dai campi di cereali attraversati dai filari di gelsi, agli orti, alle risaie. Era un tipo di agricoltura che richiedeva investimenti considerevoli ed era, quindi, praticata da ricchi proprietari: secondo un'inchiesta spagnola del 1574 sulla Lombardia, i piccoli contadini non possedevano che il 3% delle terre più fertili.
L'accresciuta richiesta di generi alimentari determinò un aumento dei profitti derivanti dall'agricoltura e l'aumento degli investimenti agricoli da parte dei detentori dei capitali. La terra interessava sempre più gli speculatori e gli affaristi, e le grandi aziende venivano gestite con un'accresciuta attenzione per il calcolo economico: si cercava di farne imprese produttive e razionali, fondate su un attento computo delle entrate, delle uscite e degli utili. Si seguiva anche con maggiore attenzione l'andamento dei prezzi, cercando di trarne il maggiore vantaggio possibile. Documenti di questo fenomeno, certamente non nuovo, ma nel '500 molto più diffuso, sono i numerosi registri contabili di aziende agricole dell'epoca giunti fino a noi, che rappresentano una preziosa fonte per lo storico dell'economia. Gli investimenti agricoli rispondevano alle richieste del mercato: grandi tenute cerealicole furono create in Sicilia, in Calabria, in Puglia, nell'entroterra veneziano come nelle pianure d'Ungheria, di Polonia, di Russia. Si trattava di una produzione destinata prevalentemente all'esportazione, anche su grande distanza: il grano siciliano veniva consumato in Spagna, quello polacco nelle regioni mediterranee. S'impiantarono colture specializzate che richiedevano alti investimenti iniziali, ma che consentivano alti profitti: i banchieri genovesi incentivarono la produzione del gelso nel Regno di Napoli, su terre offerte dall'imperatore Carlo V in pagamento dei suoi debiti; l'olivo, la vite, lo zafferano si diffusero in tutta la penisola, le risaie in Val Padana.
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