19.3 La rivoluzione borghese: 1790-91
Il 1789 suscitò entusiasmi e aspettative diffuse: crebbe in tutta la Francia la mobilitazione intorno agli ideali rivoluzionari.
"La libertà e l'uguaglianza - ha scritto lo storico Georges Lefebvre - esercitarono sulle fantasie un'attrattiva irresistibile. Il popolo francese credette che la sua esistenza sarebbe diventata migliore, che per lo meno i suoi figli sarebbero vissuti felici; sperò anzi che anche gli altri popoli sarebbero stati felici e che, liberi ed uguali, si sarebbero riconciliati per sempre. Allora la pace avrebbe regnato sulla terra liberata dall'oppressione e dalla miseria. Il carattere mitico della rivoluzione si accentuò. Una causa così nobile suscitò un ardore che la necessità del sacrificio spense in molti uomini, ma che esaltò gli altri sino all'eroismo e che si irradiò attraverso il mondo". In tutta la Francia le nuove municipalità e la Guardia nazionale furono i più importanti organismi di aggregazione e di partecipazione. Gruppi consistenti di guardie nazionali di diverse zone cominciarono a riunirsi e a federarsi per la difesa degli obiettivi comuni. Sotto la spinta di sollecitazioni provenienti dalle province, si celebrò a Parigi, il 14 luglio 1790, nell'anniversario della presa della Bastiglia, la grandiosa Festa della federazione. Di fronte a 300.000 partecipanti La Fayette, a nome dei federati, prestò il giuramento che univa "i francesi tra loro e i francesi con il re per difendere la libertà, la costituzione e la legge". Poi il re giurò fedeltà alla nazione tra il tripudio generale. La Festa della federazione testimoniò l'ampiezza dell'adesione e del consenso alla rivoluzione. Ma gli aspetti celebrativi mascheravano un'unanimità fittizia e provvisoria. In realtà le differenze di orientamento politico erano profonde e già pienamente visibili e manifeste, se solo si prendono in esame i due principali canali di mobilitazione e di propaganda: i club e la stampa.
Fra i club la Società dell'89 che raccoglieva molti notabili legati a La Fayette era di tendenze moderate. Posizioni radicali aveva invece la Società degli amici dei diritti dell'uomo e del cittadino, fondata nel luglio 1790, detta anche dei
cordiglieri dal nome dell'ex-convento dei frati minori (cordelliers) dove si riuniva. A essa aderivano alcuni protagonisti delle fasi più accese della rivoluzione:
Georges-Jacques Danton (1759-1794) e
Camille Desmoulins (1760-94) entrambi avvocati, il medico
Jean-Paul Marat (1743-93), il giornalista
Jacques-René Hébert (1757-1794). Ma il club più importante si rivelerà quello dei
giacobini (dal nome dell'ex-convento domenicano di San Giacomo), nato come Società degli amici della costituzione nel dicembre 1789. Una quota d'iscrizione piuttosto alta (24 lire) ne escluse fino al 1792 gli appartenenti a categorie sociali con redditi modesti. Organizzati secondo una rigida disciplina i giacobini miravano, con un'intensa attività, a esercitare un controllo serrato sull'attività delle istituzioni. Le 450 società affiliate (nel 1791) davano al club una struttura che per certi aspetti prefigurava quella dei moderni partiti politici. Fra i membri di maggiore spicco dei giacobini erano
Maximilien Robespierre (1758-94) avvocato, originario di Arras, presidente del club dal marzo 1790 e
Jacques-Pierre Brissot (1754-93), anch'egli avvocato, futuro leader dei girondini (
19.4).
La libertà di stampa (art. 11 della Dichiarazione dei diritti) aveva favorito il proliferare di numerosissime pubblicazioni periodiche: giornali democratici come "Le Patriote Français" di Brissot, "Révolutions de France et de Brabant" di Desmoulins e il più estremo e radicale "L'ami du peuple" ("L'amico del popolo") di Marat; il controrivoluzionario "Les Actes des Apôtres" ("Gli atti degli apostoli"); infine il più diffuso e informato, "Le Moniteur".
La varietà e diversità di posizioni non pregiudicò in questa fase il consenso largamente maggioritario ai risultati del 1789. Ma la traduzione di questi risultati in norme istituzionali pose le premesse di divisioni profonde. Quella che potremmo definire la rivoluzione politica del Terzo stato si veniva organizzando come un regime politico di notabili borghesi e di proprietari terrieri: e in questo senso possiamo parlare di rivoluzione borghese (p. 486).
Quando, nel dicembre 1789, si trattò di decidere i criteri in base ai quali attribuire i diritti politici, i cittadini furono distinti in attivi e passivi in base al censo. Soltanto quanti pagassero almeno un'imposta annua pari a tre giornate di lavoro (di un manovale) erano considerati attivi e entravano a far parte del corpo elettorale, che risultò composto da oltre 4 milioni di cittadini maschi di età superiore ai 25 anni. Gli appartenenti agli strati più poveri della società, circa 3 milioni, erano considerati cittadini passivi ed erano esclusi dal diritto di voto. La loro distribuzione era tuttavia assai disuguale: data la diversità delle retribuzioni a giornata, - più alte in città, più basse in campagna - era assai più agevole entrare nella categoria dei cittadini attivi per i contadini e per i piccolissimi proprietari rurali che per gli artigiani poveri. Ma non tutti i cittadini attivi erano eleggibili: il sistema prevedeva che in primo grado venissero nominati, fra quanti pagavano un'imposta pari a 10 giornate di lavoro (7-10 lire), gli elettori di secondo grado, che a loro volta eleggevano i deputati. Condizione di eleggibilità era possedere una qualsiasi proprietà fondiaria e pagare almeno un marco d'argento (52 lire) di imposte.
Questo sistema elettorale censitario (analogo nei princìpi a quelli esistenti in Inghilterra e negli Stati Uniti) riservava ai notabili la rappresentanza della nazione, ma rischiava di non essere compatibile con la mobilitazione di larghi strati popolari, soprattutto urbani, in parte relegati nella categoria dei cittadini passivi, privati dei diritti politici e formalmente esclusi anche dalla Guardia nazionale. Durissima fu la denuncia di queste discriminazioni da parte di Robespierre, uno dei maggiori interpreti delle istanze di egualitarismo politico, e, sui loro giornali, di Marat e Desmoulins.
Nonostante la sua importanza, la questione dei diritti politici rimase sullo sfondo anche perché le elezioni si tennero solo nell'estate del 1791. Due altri problemi nodali, fra il '90 e il '91, misero in gioco le basi del consenso: l'atteggiamento del re e la politica ecclesiastica.
Luigi XVI continuava a subire passivamente la rivoluzione. Era inoltre sempre più legato al "partito" della regina Maria Antonietta (figlia di Maria Teresa d'Austria), decisa controrivoluzionaria, e alla consistente emigrazione nobiliare che dalle frontiere del Reno premeva e si organizzava in previsione di un ritorno all'ancien régime, se necessario con l'aiuto delle grandi potenze europee. Fermenti, agitazioni e episodi di ribellione controrivoluzionaria si erano del resto già avuti in varie parti della Francia (a partire dalla primavera del 1790) e davano fondamento ai diffusi timori popolari di un "complotto aristocratico".
Dopo la requisizione dei beni della Chiesa apparve inevitabile che spettasse allo Stato il mantenimento degli ecclesiastici, equiparati ai funzionari pubblici dalla
Costituzione civile del clero, votata nel luglio 1790. La Costituzione civile attribuiva la nomina dei vescovi e dei parroci alle assemblee elettorali locali, e come tutti gli altri funzionari anche gli ecclesiastici furono obbligati a giurare fedeltà alla nazione, al re, alla costituzione (novembre 1790). Questa profonda modifica dell'organizzazione ecclesiastica (che nessuno aveva auspicato prima dell'89), fu, come era prevedibile, condannata da papa Pio VI (marzo-aprile 1791). Solo 7 vescovi su 130 prestarono il giuramento, mentre il basso clero si divise a metà fra favorevoli (costituzionali) e contrari (refrattari) alla Costituzione civile. Il gravissimo scisma che si venne così aprendo nella Chiesa di Francia ebbe come conseguenza lo schierarsi di una parte consistente e progressivamente maggioritaria del clero tra le file della controrivoluzione.
Nello stesso arco di tempo, fra il '90 e il '91, l'Assemblea costituente proseguì nella grande opera di edificazione delle nuove strutture politico-amministrative. La Francia fu suddivisa in 83 dipartimenti, geograficamente omogenei e tali che dalla località più distante si potesse raggiungere il capoluogo in una giornata di cammino. Il Comune era l'unità amministrativa base. Tutti gli amministratori erano eletti dai cittadini attivi. Fu instaurato un compiuto decentramento che rovesciava il sistema accentrato voluto dalla monarchia assoluta e realizzato con la rete degli intendenti. Parigi fu divisa in 48 sezioni (o circoscrizioni) che corrispondevano ad altrettante assemblee elettorali. Ogni sezione eleggeva tre rappresentanti che entravano a far parte del Consiglio generale della città.
L'Assemblea, ispirata da princìpi liberisti e anticorporativi, non solo soppresse tutte le corporazioni di mestiere, ma vietò altresì, con la legge Le Chapelier (14 giugno 1791) le coalizioni operaie e gli scioperi: ostacolò così le forme di organizzazione e di resistenza dei lavoratori e favorì il libero mercato della manodopera.
Il regime politico che si veniva definendo con le norme elettorali e nella redazione della costituzione era un regime liberale, fondato sulla separazione dei poteri. I giudici divennero elettivi. Fu previsto un Parlamento composto da una sola camera, l'Assemblea legislativa, della durata di 2 anni. I ministri, di nomina regia, erano responsabili solo di fronte al sovrano e non potevano essere membri dell'Assemblea. Il re aveva facoltà di opporre un veto sospensivo alle leggi votate dall'Assemblea: solo dopo la conferma in due assemblee successive, tali leggi sarebbero diventate esecutive. Il sistema previsto dalla
Costituzione del '91, approvata il 3 settembre, era congegnato in modo da richiedere, per un suo corretto funzionamento, uno stabile accordo tra il potere esecutivo e quello legislativo, fra sovrano e Assemblea.
Ma l'equilibrata realizzazione di una monarchia costituzionale, com'era nei voti delle correnti politiche moderate, fu spazzata via dalla fuga del re da Parigi, il 20-21 giugno 1791. Il gesto del re mostrava la sua chiara adesione ai programmi degli emigrati e della controrivoluzione. Il disegno era quello di guidare dall'estero una restaurazione armata della vecchia Francia. Riconosciuto e fermato a Varennes, il re fu ricondotto a Parigi, insieme alla sua famiglia, fra due ali di guardie nazionali e di popolo ostile e ammutolito.
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