11.6 Le nuove concezioni politiche
L'età moderna è caratterizzata dall'emergere e dal consolidarsi dell'istituzione-Stato come forma suprema della vita associata in cui tendenzialmente "non si riconosce più altro ordinamento giuridico che quello statale, e altra forma giuridica dell'ordinamento statale che la legge" (N. Bobbio). Se originariamente il potere dello Stato venne imponendosi come potere assoluto, ovvero come assoluta "sovranità" (
8.5) che non ammette altra supremazia, nel corso del '600 si manifestò anche il tentativo di porre dei limiti all'assolutismo monarchico in nome di un diritto di natura preesistente alla costituzione della società e quindi inalienabile.
Fu il
giusnaturalismo (dal latino ius, diritto) che, facendo risalire l'istituzione della società civile a un patto stipulato tra uomini liberi per diritto di natura, scardinò definitivamente le tradizionali teorie del potere per diritto divino derivate da una concezione gerarchica e immutabile del mondo. Il patto o contratto sociale segna il passaggio dallo stato di natura allo stato sociale e politico: in esso si esprime il "progetto ragionevole" concepito originariamente dall'umanità con il fine dell'eliminazione dei conflitti e del mantenimento dell'ordine. L'uscita dallo stato di natura, giustificata dal diritto fondamentale alla sopravvivenza degli individui, prevede l'istituzione di un apparato normativo e di pene per i trasgressori. Il giusnaturalismo ricerca il fondamento della convivenza civile in ciò che è naturale all'uomo (diritto di natura) e che è identificato con la ragione, le cui norme sono universalmente valide e superiori a qualsiasi ordinamento e anche al più alto "legislatore" (re o addirittura Dio). È in questo principio razionale che trovano fondamento e validità le leggi di natura come "un precetto, o regola generale, per cui si proibisce all'uomo di fare ciò che è dannoso per la sua vita".
Il giusnaturalismo moderno nacque con
Ugo Grozio (1583-1645) che, nel De iure belli ac pacis ("Sul diritto di guerra e di pace", 1625), individuò nel diritto naturale un diritto valido universalmente e limitante nei confronti del potere costituito. Esso è dettato dalla ragione e non dipende in alcun modo dalla volontà di Dio, anzi prescinde dalla sua stessa esistenza. Alla base di questa concezione "laica" dello Stato vi è l'idea di una condizione originaria dell'uomo (lo "stato di natura") anteriore a qualsiasi forma di organizzazione civile, che è rintracciabile razionalmente tramite l'eliminazione di tutti gli artifizi prodottisi con la vita civile (abitudini, leggi, costumi) e contempla i diritti incoercibili alla vita e alla libertà.
Già Giovanni Altusio (Johannes Althusius, 1557-1638) aveva proclamato il principio della sovranità popolare che nasce al momento della costituzione stessa della società e in seguito a un patto espressamente o tacitamente stipulato. Influenzata da Altusio e Grozio, è l'opera del tedesco Samuel Pufendorf (1632-1694) che teorizzò la fondazione dello stato civile attraverso un patto d'unione fra tutti i contraenti e un "patto di soggezione" nei confronti del sovrano cui viene delegato il potere.
Sulla condizione dell'uomo nello stato di natura, sulla natura stessa del patto e sulle caratteristiche del potere politico, il pensiero dei giusnaturalisti diverge da quello del filosofo inglese
Thomas Hobbes (1588-1679). Nelle opere di carattere politico, il De cive (1642) e il Leviatano (1651), Hobbes concepì lo Stato assoluto come unica garanzia di pace e antidoto alla paura della morte e alla miseria. Pur ammettendo la divaricazione tra stato di natura e stato civile, egli trasse conseguenze assai diverse da quelle di Grozio: lo stato di natura non è una condizione di pace e di serenità, ma una realtà violenta di odio e di aggressione derivante dal diritto di tutti contro tutti (homo homini lupus). Solo con la stipulazione del patto gli uomini escono da questo stato di guerra delegando ogni loro potere al sovrano: "Fuori dello Stato, è il dominio delle passioni, la guerra, la paura, la povertà, l'incuria, l'isolamento, la barbarie, la bestialità. Nello Stato, è il dominio della ragione, la ricchezza, la decenza, la socievolezza, la raffinatezza, la scienza, la benevolenza", scriveva Hobbes nel Leviatano, dal nome del mostro di cui parla la Bibbia nel libro di Giobbe e che simboleggia lo Stato. Hobbes muove dalla convinzione che solo la legge positiva stabilisca che cosa sia giusto e ingiusto: niente di assoluto vi è invece prima della stipulazione del patto, né bene, né male, né peccato. In questa visione assolutamente laica dello Stato, della vita associata e dei suoi stessi valori, va individuato uno degli elementi di maggiore modernità del pensiero politico di Hobbes. Infatti pur teorizzando un rigoroso, quasi spietato assolutismo, Hobbes rifiuta il carattere e l'origine divina dello Stato.
La teoria dello Stato esposta dal filosofo inglese
John Locke (1632-1704) nei Due trattati sul governo civile (1690) è invece fondata sulla critica dell'assolutismo e sull'inviolabilità dei diritti innati dell'uomo. Per Locke, come per i giusnaturalisti, il potere politico ha la funzione di garantire e assicurare la fruizione dei diritti personali, fra cui Locke inserisce quello alla proprietà privata. Nella Lettera sulla tolleranza (1689) così Locke si esprime a proposito dello Stato: "Lo Stato è [...] un'associazione di uomini costituita solo in vista del mantenimento e progresso dei loro interessi civili. Per interesse civile intendo la vita, la libertà, l'integrità e immunità del corpo, e il possesso degli oggetti materiali, come terra, denaro, suppellettili ed altro". Lo Stato quindi si fonda solo sul comune consenso e Locke per questo considerò contro ragione ogni forma di potere assoluto e sancì il diritto alla resistenza in caso di arbitrio del sovrano nei confronti del cittadino. Con la teoria della limitazione e della distinzione dei poteri, col diritto di resistenza e di ribellione, nonché con l'attenzione al tema della tolleranza, Locke pose le basi del futuro
liberalismo.
Sul concetto di "legge naturale" si aprì un vivace dibattito in cui convergevano differenti istanze politiche e religiose. L'affermarsi delle nuove concezioni scientifiche e filosofiche si espresse anche nel rifiuto delle manifestazioni esteriori della religione e nell'uso del metodo razionale in materia di fede, mentre le controversie intorno alla critica biblica si rivelarono ricche di implicazioni politiche e ideologiche. Con l'identificazione di religione e ragione, espressa nel suo La ragionevolezza del cristianesimo (1695), Locke espose le sue riflessioni sulla tolleranza e sulla legge di natura, temi ripresi nella trattatistica posteriore dai cosiddetti "deisti". Il
deismo contrapponeva la religione naturale o razionale alle religioni positive o storiche, ritenendo che si potesse parlare di Dio solo nei termini indicati dalla ragione. Se da un lato il dibattito sul diritto di natura diventava un veicolo di idee eversive e di sovvertimento sociale e un fenomeno di "irreligiosità", dall'altro la considerazione della ragione come arbitra anche delle questioni religiose costituì una premessa per l'affermarsi delle tendenze razionalistiche e delle teorie liberali che si manifesteranno più chiaramente nell'Illuminismo.
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