18.3 Il contrasto con la madrepatria
Fino agli anni '60 del secolo XVIII, il problema dell'indipendenza rimase sostanzialmente estraneo agli orizzonti politici e alle aspirazioni degli abitanti del Nord America. I coloni di origine inglese - pur essendo protagonisti di esperienze nuove e originali, e in molti casi antagonistiche rispetto alla società da cui provenivano - non cessavano di sentirsi innanzitutto sudditi della corona britannica, di far costante riferimento alle idee e agli schieramenti della politica della madrepatria. Le stesse minoranze religiose intrattenevano stretti rapporti con le comunità d'origine (che, nell'Inghilterra del '700, conservavano solide radici e godevano di ampi spazi di libertà). Insomma, troppo forti erano i vincoli con la madrepatria e troppo deboli i legami reciproci fra le tredici colonie perché una "identità americana" potesse svilupparsi spontaneamente.
Anche i contrasti col governo britannico - che pure non mancavano, soprattutto sul piano economico - erano resi meno drammatici dalle larghe autonomie di cui le colonie godevano e dalla relativa facilità con cui potevano eludere i controlli sul commercio. Il sostegno militare della madrepatria era inoltre considerato indispensabile per proteggere la sicurezza delle colonie contro le insidie delle due potenze cattoliche (Francia e Spagna) e contro la minaccia degli indiani. La guerra dei Sette anni (
13.11), che vide i coloni impegnati in un lungo e duro scontro con i francesi e con le tribù indiane loro alleate - parve segnare il momento di massima unione fra la Gran Bretagna e le sue colonie americane. In realtà, fu proprio la guerra a porre le premesse per un contrasto che si sarebbe presto rivelato insanabile.
All'indomani della pace di Parigi del 1763, la Gran Bretagna si trovò padrona di un vasto impero nordamericano che si estendeva dal Canada alla Florida. Per consolidare e difendere questo impero, dovette però aumentare considerevolmente la sua presenza militare sul continente: un impegno che gravava non poco sulle finanze inglesi, già esauste per le spese della guerra. Di qui il tentativo del governo britannico di esercitare un più stretto controllo sulle colonie e di addossare sulle loro spalle una parte crescente delle spese necessarie alla loro sicurezza.
Nell'ottobre 1763, il re Giorgio III emanò un proclama con cui si vietava ai coloni di spingersi al di là della catena degli Appalachi e si avocava ai rappresentanti del governo britannico la delicata materia dei rapporti con gli indiani (che in quello stesso anno avevano dato vita a una serie di sanguinose ribellioni). Nell'aprile '64 fu emanata una nuova legge sul commercio degli zuccheri (Sugar Act), che colpiva con un forte dazio le importazioni di zucchero dai Caraibi francesi (lo zucchero serviva soprattutto come materia prima per la distillazione del rhum prodotto nella Nuova Inghilterra) e inaspriva i relativi controlli, fin allora alquanto labili. Un anno dopo (marzo '65) il Parlamento approvava un'altra legge (Stamp Act) che imponeva alle colonie una
tassa di bollo sugli atti ufficiali e sulle pubblicazioni. Queste misure - che colpivano gli interessi di tutte le colonie e di tutti gli strati sociali e ferivano nel contempo una ormai consolidata tradizione di autonomia - provocarono un brusco deterioramento nei rapporti fra la corona e i suoi sudditi d'oltre Atlantico e inaugurarono una fase di duro confronto, caratterizzata dal continuo alternarsi di tentativi di compromesso e di manifestazioni di intransigenza da entrambe le parti.
Nel 1766, di fronte alla protesta dei coloni, e alle critiche mosse dalla stessa opposizione liberale in Gran Bretagna, il Parlamento inglese decise di revocare lo Stamp Act. Al tempo stesso, però, riaffermò il principio della propria piena sovranità sui territori d'oltremare e, l'anno successivo, approvò una serie di provvedimenti (detti Townshend Acts dal nome del ministro che se ne fece promotore) che imponevano alle colonie dazi di entrata su numerose merci importate dalla madrepatria e rendevano più efficaci i controlli doganali.
A questi provvedimenti, che in realtà costituivano una forma di tassazione mascherata, i coloni reagirono allargando e intensificando le azioni di protesta. Furono organizzate manifestazioni di piazza, soprattutto a opera di associazioni segrete (i Sons of Liberty, figli della libertà). In alcuni centri, soprattutto del Massachusetts, fu attuato il boicottaggio delle merci provenienti dalla madrepatria. Della protesta si fecero interpreti le assemblee legislative e i numerosi periodici politici delle colonie, che potevano contare su un pubblico abbastanza vasto per l'epoca. Intellettuali e giornalisti di orientamento liberal-radicale (come Benjamin Franklin e John Dickinson della Pennsylvania, James Otis e Samuel Adams del Massachusetts, Thomas Jefferson della Virginia) pubblicarono opuscoli polemici in cui si faceva appello, per difendere il buon diritto dei coloni, alla stessa tradizione del parlamentarismo britannico: in particolare al principio secondo cui nessuna tassa poteva essere imposta senza l'approvazione di un'assemblea in cui i diritti dei tassati trovassero adeguata rappresentanza. In base a questo principio (no taxation without representation) il Parlamento, dove i coloni non erano rappresentati, non aveva diritto a imporre tasse ai territori d'oltremare.
Nemmeno il ritiro, nel 1770, dei Townshend Acts (rimase in vigore solo il dazio sul tè) valse a far rientrare una mobilitazione che, tenuta viva soprattutto dai ceti popolari, andava ormai assumendo contenuti sempre più radicali. Non ci si limitava più a rifiutare i tributi imposti dalla madrepatria, ma si affermava che le assemblee legislative, in quanto unica rappresentanza legittima delle colonie, andavano messe sullo stesso piano del Parlamento inglese. Di qui alla rivendicazione dell'indipendenza il passo era breve, e fu compiuto rapidamente.
A dare nuovo slancio alle correnti radicali fu un provvedimento del 1773 che assegnava alla Compagnia delle Indie il monopolio della vendita del tè nel continente americano, danneggiando gravemente i commercianti locali. Nel dicembre 1773, nel porto di Boston (centro principale dell'agitazione anti-inglese), un gruppo di "Figli della libertà" travestiti da indiani assalirono alcune navi della Compagnia, gettandone in mare il carico di tè. Il governo inglese rispose con dure misure di ritorsione (le cosiddette leggi intollerabili): nel 1774 il porto di Boston fu chiuso, il Massachusetts fu privato delle sue autonomie, in tutte le colonie i giudici americani furono sostituiti da funzionari britannici. Contemporaneamente, si cercò di bloccare la penetrazione dei pionieri nella valle dell'Ohio, annettendo quel territorio alla provincia canadese del Québec.
Da questo momento in poi, la ribellione divenne aperta e generalizzata. Nel settembre '74, in un
primo Congresso continentale tenutosi a Filadelfia, i rappresentanti di tutte le colonie (eccetto la Georgia) si accordarono per portare avanti le azioni di boicottaggio e per difendere con ogni mezzo le loro autonomie. Il governo inglese rispose avanzando alcune proposte conciliative, ma intensificando al tempo stesso la repressione militare in Massachusetts. Si ebbero così, nell'aprile 1775, i primi scontri armati fra le milizie dei coloni e l'esercito inglese a Lexington e a Concord nei pressi di Boston. In maggio, un
secondo Congresso continentale, sempre a Filadelfia, decideva la formazione di un esercito comune (Continental Army) e ne affidava il comando a
George Washington, proprietario terriero e capo delle milizie della Virginia. La protesta delle colonie sfociava così in una vera e propria guerra.
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