4. La Riforma protestante
4.1 I mali della Chiesa
Le aspirazioni a una profonda riforma della Chiesa, che placasse finalmente le proteste e lo scontento che si levavano con periodicità, già a partire dall'XI secolo, all'interno del mondo cristiano, erano state regolarmente deluse. Le autorità religiose avevano tollerato o favorito, in più occasioni, quei tentativi di rinnovamento che non assumevano apertamente caratteristiche eretiche (come nel caso degli ordini mendicanti), ma si era sempre trattato di esperienze limitate, ben lontane da quel radicale cambiamento che era nelle attese di vasti settori di fedeli e delle frange più sensibili del clero. Di conseguenza, più il potere materiale della Chiesa aumentava, più si diffondeva tra i credenti la certezza che essa fosse irrimediabilmente lontana dalla Chiesa delle origini, politicamente debole ma moralmente pura. Questo mito della purezza del cristianesimo antico divenne talmente forte da configurarsi non tanto come un rimpianto sconsolato quanto come una meta da raggiungere, un ideale da tradurre in realtà. Gli stessi temi e ideali della "devotio moderna", che pure contenevano elementi e suggestioni di profonda novità, circolavano prevalentemente in ristrette cerchie d'intellettuali e per la loro stessa natura non erano in grado di dare una risposta chiara alle attese e allo scontento di larghe masse di fedeli.
I mali della Chiesa, invece, erano sempre sotto gli occhi della gente, ed erano quasi tutti mali antichi: il concubinato (detto nicolaismo) degli ecclesiastici; la simonia (cioè la vendita delle cariche ecclesiastiche), che ora interveniva persino nell'elezione dei pontefici; il mancato rispetto dell'obbligo della residenza di vescovi, abati e curati nel luogo dell'ufficio; il cumulo delle prebende e dei benefici; le dispense dall'obbligo dell'esercizio del ministero ecclesiastico; il malcostume dei sacerdoti (libertà sessuale, ubriachezza, corruzione, ecc.); la loro ignoranza (spesso i curati non sapevano leggere, ignoravano il latino, amministravano male i sacramenti e celebravano in modo approssimativo i riti).
Un problema particolarmente scottante era quello delle
indulgenze. Con il termine indulgenza, si indicava la remissione delle pene cosiddette canoniche (digiuni e penitenze di vario genere spesso sotto forma di preghiere) che venivano inflitte dalla Chiesa ai fedeli in conseguenza del perdono dei loro peccati: la confessione dei peccati e l'assoluzione erano infatti nulle se non accompagnate dall'espiazione. Verso il 1500 era enormemente diffusa la pratica dell'acquisto dell'indulgenza dietro versamento di somme di denaro. Il peccatore poteva comprare l'indulgenza per sé e un comune fedele poteva comprarla anche per le anime del Purgatorio, accelerando in tal modo il passaggio delle anime stesse in Paradiso: "Appena il soldo in cassa rimbalza, l'anima via dal Purgatorio balza", andavano dicendo i banditori delle indulgenze per invogliare i fedeli. La pratica, com'è ovvio, si prestava ad abusi di ogni genere e diffondeva tra i fedeli il ritratto di una Chiesa dedita prevalentemente al commercio delle indulgenze, e che amministrava il perdono e la penitenza unicamente per rimpinguare le proprie finanze. Le indulgenze, in altre parole, erano l'aspetto più appariscente della crisi della Chiesa, una crisi di comportamenti e di immagine.
Il 31 ottobre del 1517 il monaco agostiniano
Martin Lutero (1483-1546) affisse sulla porta della chiesa del castello di Wittenberg un documento contenente 95 "tesi" contro le indulgenze. Più che sullo squallido commercio delle indulgenze, il suo attacco verteva sulla loro assurdità morale e teologica. La Chiesa - sosteneva Lutero - non può vincolare le decisioni divine; se Dio ha imposto un castigo, solo lui può condonarlo, e il perdono divino rende inutile qualsiasi indulgenza; analogamente, il papa non ha alcun potere sulle anime del Purgatorio: la preghiera può aiutarle ma non si può comprare il loro destino. Conta il pentimento, non la penitenza.
Il problema della salvezza era stato ossessivamente presente in tutta la formazione di Lutero. Nel chiuso del monastero agostiniano di Erfurt, attraverso una tormentata vicenda spirituale, egli era giunto a una visione radicalmente pessimistica dell'uomo, una concezione che lo aveva portato su posizioni molto distanti da quelle umanistiche: la natura umana era irrimediabilmente contaminata dal peccato originale e nulla gli uomini potevano fare se non abbandonarsi alla giustizia e alla misericordia divina. Accusato di eresia e invitato a giustificarsi presso il pontefice, Lutero svolse ulteriormente, nei mesi successivi all'episodio di Wittenberg, il filo di una critica serrata di carattere teologico, rivolta contro i fondamenti stessi dell'autorità ecclesiastica: tutti gli uomini - egli sosteneva - sono peccatori e nulla li può salvare se non la fede nella misericordia divina, la cosiddetta
giustificazione per fede: "Non è giusto l'uomo che opera molto, ma colui che, senza operare, crede molto in Cristo". Il cristiano ha una doppia natura: c'è in lui un uomo interiore, che trova la sua piena libertà nella fede, nel rapporto con Dio, nella lettura delle Sacre Scritture, che esprimono autenticamente la volontà divina. C'è anche un uomo esteriore, che si pone in rapporto con gli altri uomini nel quadro della vita sociale. Le opere buone non servono a salvare l'uomo interiore (che si salva unicamente per la fede), ma unicamente a governare l'uomo esteriore e a farlo vivere in armonia con l'uomo interiore.
Le conseguenze di questa valorizzazione assoluta del dialogo diretto fra l'uomo e Dio erano di grande importanza. Si svalutava anzitutto il ruolo dei sacerdoti quali intermediari necessari tra Dio e i fedeli; secondo Lutero esisteva infatti un
sacerdozio universale dei credenti: tutti i credenti erano sacerdoti perché tutti avevano ricevuto il battesimo. Nessuna barriera divideva di conseguenza i laici e gli ecclesiastici e questi ultimi erano soltanto dei delegati che svolgevano nel nome di tutti un determinato ufficio. La lettura e l'interpretazione delle Sacre Scritture erano un diritto di tutti i credenti e non, come affermava la Chiesa, un monopolio riservato ai sacerdoti. Per Lutero il papato stesso era un'istituzione esclusivamente umana, una potenza terrena, come le monarchie o l'Impero, e l'intera Cristianità non aveva altro capo che Cristo. La sua critica al papato in quanto istituzione divina si fece sempre più serrata: "In primo luogo non tollero che alcuni uomini stabiliscano dei nuovi articoli di fede, calunniando tutti gli altri cristiani, condannandoli e accusandoli come eretici, apostati e infedeli solo perché non sono soggetti al papa [...] In secondo luogo tutto quello che il papa stabilisce, compie e dispone voglio accettarlo solo dopo averlo giudicato secondo la Sacra Scrittura. Per me egli deve restare sottoposto a Cristo e lasciarsi guidare dalla Santa Scrittura [...] In caso contrario egli non sarà per me né papa né cristiano; e chi non vuole ammetterlo faccia pure di lui un idolo. Io per me non intendo venerarlo".
Dalla dottrina del sacerdozio universale dei credenti derivava inevitabilmente una diversa valutazione dei
sacramenti. I sette sacramenti cattolici (eucarestia, battesimo, penitenza, matrimonio, cresima, ordine, estrema unzione), furono ridotti da Lutero a tre. Soltanto l'eucarestia, il battesimo e la penitenza, a suo avviso, erano fondati sulla Sacra Scrittura; gli altri erano il frutto delle distorsioni introdotte dall'autorità ecclesiastica.
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