4.6 Il calvinismo
A Ginevra, nella Svizzera di lingua francese, si svolse l'attività di
Giovanni Calvino (1509-1564), un francese fuggito dalla sua patria per evitare la repressione che si era abbattuta sui luterani (
4.7). Già nel 1536 Calvino - che era un uomo coltissimo - era diventato famoso per la pubblicazione dell'Istituzione della religione cristiana, un'opera che conobbe un grande successo editoriale e diventò, di edizione in edizione, una vera e propria "summa" teologica della Riforma. Dopo un breve soggiorno a Ferrara, dove la duchessa Renata di Francia, sensibile all'ideale evangelico, lo aveva accolto con favore, Calvino si era stabilito a Ginevra, cedendo alle insistenze di Guglielmo Farel, un riformatore che aveva intuito le eccezionali potenzialità di quel giovane.
I rapporti di Calvino con Ginevra non furono facili, ma alla fine, dopo decenni di attività instancabile, di contrasti, di fallimenti e di successi, Calvino riuscì a fare di quel piccolo centro di 13.000 abitanti una specie di Stato-Chiesa, una comunità protesa a incarnare il modello calvinista di società. Questo modello di società era imperniato sull'idea di
predestinazione, che già Lutero aveva abbozzato e che Calvino elaborò e completò con grande coerenza.
Per volontà imperscrutabile di Dio, alcuni eletti erano predestinati da sempre alla salvazione; tutti gli altri erano dannati. La salvezza non dipendeva dai meriti dell'individuo, ma dalla Grazia divina. L'individuo, però, non doveva rassegnarsi passivamente al proprio destino, ma ricercare continuamente dentro di sé i segni della sua appartenenza alla schiera degli eletti. Questa ricerca attiva e incessante si attuava anche nella vita di ogni giorno, nella quale l'eletto era chiamato a impegnarsi: il successo personale, il dovere compiuto, il lavoro ben eseguito (fosse esso quello dell'uomo politico o un'occupazione umilissima) erano quasi un rito religioso celebrato in onore di Dio: "non ci sarà compito così disprezzato né così basso, che non risplenda davanti a Dio e non sia estremamente prezioso, se in esso adempiamo la nostra vocazione". Per il calvinismo la vocazione di ognuno - e dunque anche il suo ruolo sociale e professionale - si legava così in positivo alla predestinazione dando vita a una nuova etica del lavoro. Per quanto riguarda il denaro, esso doveva essere impiegato, oltre che per il proprio sostentamento e per quello dei poveri, in attività produttive che generassero a loro volta nuovi guadagni: anche negli affari il successo era un segno della predestinazione divina (p. 104).
In un'etica come questa, nella quale trovavano un ruolo eminente anche attività come quelle del mercante e del banchiere e, più in generale, le attività di chiunque maneggiasse denaro, tramontava veramente l'etica medievale.
Per dar vita a questa comunità ideale e fare in modo che i fedeli operassero, come si erano impegnati a fare, "secondo il Vangelo e la Parola di Dio", Calvino utilizzò ampiamente gli strumenti della politica, finalizzandoli al controllo della religione e della morale. Sulla condotta dei cittadini, sulle questioni dottrinali, sulla disciplina ecclesiastica, vigilava un organismo apposito, il Concistoro, composto da dodici laici (gli anziani o presbiteri) e da alcuni pastori (da cinque a dieci). Il sistema scolastico, dalle elementari all'Università, venne completamente riformato. I magistrati cittadini furono sottoposti a uno stretto controllo della loro dirittura morale e della loro osservanza religiosa. Un vento moralizzatore spazzò la vita pubblica e privata dei ginevrini: furono vietati i giochi d'azzardo, gli spettacoli, il lusso, furono chiuse le taverne. I peccatori venivano esclusi dalla comunione e la sanzione provocava di fatto l'emarginazione sociale.
Ginevra divenne anche il punto di riferimento e il rifugio di tutti coloro che, dall'Italia alla Francia, dalla Germania all'Olanda erano perseguitati per le loro idee religiose. Sotto il profilo strettamente religioso Calvino fu di una intransigenza estrema e fece ampiamente ricorso al terrore, spingendosi non di rado ad atti di inutile crudeltà: fece scalpore la tortura e l'uccisione sul rogo, come eretico, dello spagnolo
Michele Serveto (1511-1553), uno dei più grandi uomini di cultura del tempo e figura di primissimo piano nella storia della scienza moderna (fu lo scopritore, tra l'altro, della circolazione polmonare del sangue). Già nel corso di uno scambio epistolare, Serveto aveva scandalizzato Calvino esponendogli la propria posizione fortemente antitrinitaria (che fu elaborata nel trattato intitolato De Trinitatis erroribus). L'offesa alla Trinità era considerata, anche dai protestanti, uno dei delitti più gravi di cui potesse macchiarsi un cristiano. Serveto, trascinato da un temperamento impetuoso e da un'autentica passione per le controversie più spregiudicate, decise di recarsi personalmente a Ginevra per discutere le sue idee, ma si trovò di fronte a un ambiente che non era assolutamente disposto a discutere su quel piano e che non lo lasciò ripartire vivo. Il suo martirio, tuttavia, non fu inutile, perché aprì, tra i dotti europei, un'importante discussione sull'idea di tolleranza religiosa (p. 260).
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