7.4 La pirateria mediterranea e la lotta contro i turchi
Nel Mediterraneo era rimasta da tempo una partita aperta: quella tra cristiani e musulmani, che si riassumeva nello scontro tra l'Impero ottomano e il Regno di Spagna. Ambedue erano Stati fondati sul potere assoluto del loro sovrano. Ambedue avevano dimensioni enormi: conosciamo già quelle dei domini spagnoli; quanto all'Impero ottomano, basterà ricordare che si estendeva dalla penisola balcanica all'Anatolia, all'Arabia, all'Egitto. Ambedue, infine, potevano contare su un potenziale bellico considerevole, che sostanzialmente si equivaleva. Il confronto militare tra le due potenze non si era mai interrotto. Nel 1560 i turchi avevano sconfitto a Ceuta la flotta spagnola e nel 1565 avevano messo a dura prova la resistenza di Malta, con un assedio durato vari mesi. Si trattò, in questi casi, di scontri più o meno saltuari. Ma c'era anche un conflitto più continuo e capillare, fondato su un'attività antica quanto la navigazione: la
pirateria.
Si tratta di un fenomeno tanto importante nella storia dell'epoca, quanto complesso e a volte sfuggente. C'era anzitutto una pirateria musulmana, che vedeva in prima linea i famosi pirati barbareschi (
5.3), terrore di tutte le coste occidentali. La loro caratteristica era di agire anche con grosse formazioni navali, adatte a fronteggiare qualsiasi situazione e a condurre vere e proprie operazioni militari. Le notizie delle loro apparizioni si susseguono a ritmo incalzante: nel 1559 quattordici navi corsare costeggiano l'Andalusia; nel 1561 diciassette "galere turchesche" battono le rive del Portogallo mentre un'altra squadra, di ben trentacinque navi, blocca il porto di Napoli; nel 1563 vengono setacciate a tappeto le rotte intorno alla Sicilia e i pirati fanno la loro apparizione in Calabria, all'altezza di Gaeta, di Genova, di Savona, in Corsica. L'anno dopo una flotta di quarantacinque imbarcazioni è avvistata davanti all'isola d'Elba. In una sola stagione i pirati barbareschi catturarono ben cinquanta navi nello Stretto di Gibilterra e fecero 4000 prigionieri nel territorio di Granada. A giudicare da un'informazione pervenuta alla corte di Spagna, quell'anno il Mediterraneo occidentale era battuto da circa duecento legni di pirati musulmani. L'elenco delle loro imprese potrebbe continuare a lungo e comprendere molte altre località europee, molti altri mari. I pirati musulmani si spostavano come lupi dietro le prede e seguivano la scia delle più ricche correnti di traffico: li ritroviamo nell'Adriatico, a caccia di galere veneziane, ma li ritroviamo anche oltre Gibilterra, nell'Oceano, dove nei primi decenni del '600 fanno incursioni in Francia, in Inghilterra e persino in Islanda e nel Baltico.
La principale base dei pirati barbareschi era
Algeri, una città nuova e in rapida crescita che doveva tutto all'eccezionale afflusso di beni saccheggiati per ogni dove. Grande centro di smistamento delle merci, i traffici vi fiorivano. Vi approdavano mercanti dall'entroterra africano e anche dal mondo cristiano, magari da quegli stessi paesi le cui terre e le cui navi erano state appena saccheggiate. Vi si commerciava di tutto, dai viveri alle stoffe, ai gioielli, alle spezie, agli schiavi: tutto quanto, insomma, fosse stato portato ad Algeri come bottino. Da Algeri migliaia di prigionieri cristiani, ma anche musulmani, scrivevano alle loro famiglie implorando di restituirli alla libertà pagando il riscatto (p. 176). Algeri era una città cosmopolita, piena di schiavi e di "rinnegati", spesso ex-prigionieri che abbandonavano la loro fede e si davano a una nuova vita. L'influenza dei vari gruppi etnici vi cambiava col mutare dei personaggi emergenti: alla Algeri creata dal Barbarossa fece seguito, dal 1560 al 1587, una Algeri "italiana", governata da Eudj-Ali, nome arabo di un calabrese, Ucciali, che da povero pescatore divenne padrone della città; fu poi la volta di inglesi e olandesi: olandese era il famoso Simon Simonsen - chiamato Dansa dagli italiani e dai francesi perché era stato un danzatore - che seminò il terrore alla testa di un equipaggio composto di turchi, inglesi e olandesi.
I cristiani amavano lamentarsi della pirateria musulmana, e ben a ragione; ma c'era anche una pirateria cristiana. Le città che vi si dedicavano attivamente erano numerosissime: La Valletta, Pisa, Napoli, Messina, Palermo, Trapani, Palma di Maiorca, Almeria, Valenza, Fiume e tante altre, ma soprattutto Livorno, l'"Algeri cristiana", e Malta, dove si annidavano i temibili cavalieri di Malta, eredi dell'antico ordine cavalleresco medievale. Sarebbe sbagliato pensare che questi pirati cristiani - "ponentini" li si chiamava nel Levante - attaccassero solo i musulmani. Non c'è dubbio che il grande terreno di caccia della pirateria cristiana fossero le acque del Mediterraneo orientale - solcate da ricchi convogli carichi di spezie, di seta, di grano, di riso, di zucchero e di pellegrini - ma venivano assalite, se capitava, anche le navi veneziane o di qualsiasi altra città cristiana. Sappiamo per esempio di navi francesi catturate dai genovesi, di navi francesi che depredavano le coste siciliane e napoletane, e così via, in un groviglio di aggressioni a catena. La pirateria, infatti, era una rete che avvolgeva chiunque solcasse il mare, ed era difficile distinguere tra marinaio e pirata; la praticavano i corsari veri e propri, ma la praticavano anche, all'occasione, le navi militari e le stesse imbarcazioni commerciali (i cannoni di cui esse si fornirono per difendersi potevano anche servire ad altri scopi...).
C'era una pirateria decisamente irregolare, ma c'era anche una pirateria in qualche modo riconosciuta e autorizzata - la cosiddetta corsa - che le potenze in guerra utilizzavano per danneggiarsi reciprocamente. Ma è chiaro che la distinzione tra le due attività era spesso molto sottile. In sostanza, la pirateria, grande realtà della navigazione moderna, era un fenomeno ambiguo e spesso tollerato a livello ufficiale: esistevano regole di comportamento internazionale alle quali le principali potenze si attenevano, ma si chiudeva volentieri un occhio su quella valvola di sfogo che rappresentava comunque un elemento dinamico nella realtà politica, militare ed economica dell'epoca. Dal punto di vista economico, in particolare, essa rappresentava un circuito di "scambi forzati" che si affiancava al circuito degli scambi regolari.
La pirateria era anche una delle forme della guerra continua e capillare tra turchi e spagnoli. La tensione tra il re di Spagna e il sultano turco aumentò tuttavia in conseguenza di un'operazione militare in grande stile: l'occupazione, da parte del successore di Solimano il Magnifico, Selim II (1566-74) dell'isola di Cipro, dominio veneziano situato in una zona strategicamente vitale (1570). Fu allora che il mondo cattolico si scosse e - sia pure tra infinite diffidenze e trattative quanto mai complesse - riuscì a trovare una comunione d'intenti. Decisiva fu la mediazione infaticabile di papa
Pio V (1565-72), che portò alla costituzione di una Lega santa contro i turchi, comprendente, oltre al pontefice, la Spagna e Venezia; la Francia, sempre diffidente nei confronti della Spagna e tradizionalmente in buoni rapporti con i turchi, restò prudentemente a guardare. Fu armata una grande flotta al comando di Giovanni d'Austria, fratello naturale di Filippo II.
Il 7 ottobre del 1571, nelle acque di
Lepanto (una città greca posta all'imboccatura del golfo di Corinto) si fronteggiarono due grandi flotte composte da centinaia di navi. La battaglia si risolse in una grande disfatta dei turchi, che misero in salvo appena trenta galere e persero circa 35.000 uomini tra morti, feriti e prigionieri. I cristiani liberarono inoltre 15.000 forzati imbarcati come rematori nelle stive turche. In questa memorabile battaglia, fu preziosa la superiorità cattolica nell'artiglieria e nelle armi da fuoco leggere e il fatto che la flotta musulmana arrivò allo scontro in cattive condizioni, dopo mesi di estenuanti scorribande nell'Adriatico.
La notizia della vittoria della Lega santa suscitò un'ondata di entusiasmo nei paesi vincitori e in tutte le terre che confinavano con la potenza turca, ma quali furono le reali conseguenze di Lepanto? Dal punto di vista militare i turchi si ripresero prestissimo: ricostruirono la flotta e stipularono una pace separata con Venezia, che si rassegnò alla perdita di Cipro. Ma dopo Lepanto la loro presenza nel Mediterraneo risultò come offuscata, senza più la brillante aggressività dei secoli precedenti. Essi preferirono spostare il loro interesse su un altro fronte tradizionale, quello persiano, che li tenne occupati a lungo. Per il mondo cristiano Lepanto segnò la fine di un incubo, perché mostrò che i turchi potevano essere duramente sconfitti in un grande scontro frontale. Libere da un troppo radicato complesso d'inferiorità, le potenze cattoliche che mantenevano flotte nel Mediterraneo ripresero coscienza delle proprie forze, mentre la pirateria cristiana prendeva decisamente il sopravvento. Nel complesso i traffici mediterranei divennero ora, per le navi cristiane, più sicuri di prima.
In Spagna la lotta contro i turchi ravvivò lo spirito di crociata, che non si era mai spento nella nobiltà cavalleresca e accendeva passioni anche nel popolo comune. All'interno della penisola iberica, questi sentimenti portarono a una feroce persecuzione dei
moriscos (così venivano chiamati i musulmani battezzati), discendenti dalle popolazioni arabe che un tempo avevano occupato la Spagna. Anche se politicamente e socialmente discriminati, i moriscos, quando non erano laboriosi contadini, erano tradizionalmente impegnati nell'artigianato e nel commercio e rappresentavano un gruppo intraprendente e dinamico. Accusati di essere rimasti, dietro una facciata cristiana, segretamente attaccati alla loro vecchia fede, e di rappresentare quindi una sorta di quinta colonna turca in seno alla società spagnola, i moriscos furono sempre più emarginati e perseguitati. Nel 1568 una loro disperata rivolta fu rapidamente e duramente stroncata. I più furono uccisi o deportati in piccoli gruppi in regioni lontane. Nel 1609 sarebbero stati definitivamente espulsi dalla Spagna. Questi provvedimenti provocarono seri danni all'economia spagnola, perché, in una società già priva di un forte ceto artigianale e commerciale, eliminarono di colpo - uccidendoli o sradicandoli - migliaia di individui che rappresentavano uno dei settori più attivi della popolazione.
Torna all'indice