11. Nuova scienza e nuova politica
11.1 La rivoluzione scientifica
La scienza e le concezioni politiche moderne trovano origine nelle profonde trasformazioni che, nel corso del XVII secolo, coinvolsero tutti i campi del sapere: la crisi di molte "verità" tradizionali determinò infatti quel complesso fenomeno che va sotto il nome di "rivoluzione scientifica".
Nata dalla ridefinizione dei concetti di esperienza, di legge naturale, di natura, la rivoluzione scientifica vide il suo momento più significativo nello sviluppo di una nuova cosmologia. Con le scoperte e le teorie prima di Copernico, poi di Keplero, Galilei, Cartesio e Newton, al cosmo chiuso e geocentrico della concezione aristotelico-scolastica venne sostituendosi l'universo eliocentrico e, più tardi, infinito, della scienza moderna. Nella teoria aristotelica che aveva dominato gli studi scientifici sino a tutto il '500, il cosmo costituiva un mondo chiuso, ben ordinato, nel quale la Terra, immobile, occupava il centro. Bisognava distruggere questa concezione perché potesse affermarsi la spiegazione eliocentrica proposta dall'astronomo polacco
Niccolò Copernico (1473-1543) nel suo De revolutionibus orbium coelestium (1543). Alla visione di una natura creata a misura d'uomo venne sostituendosi l'immagine meccanica dell'orologio: al dio della tradizione si sovrappose il dio meccanico che ha costruito il mondo come un perfetto congegno, una enorme macchina che egli ha messo in moto. L'adozione del modello "macchina", associato in molti autori all'immagine dell'universo, implicò la riduzione di ogni realtà fisica a materia e movimento.
La teoria eliocentrica, che poneva il Sole al centro dell'universo e i pianeti, compresa la Terra, in moto intorno ad esso, capovolgeva l'ordine gerarchico del cosmo: il rovesciamento della cosmologia e della "visione del mondo" tradizionale implicava anche la messa in discussione delle concezioni scientifiche, religiose, politiche e culturali fino allora dominanti. Anche all'uomo veniva assegnato un posto radicalmente diverso: egli perdeva il ruolo di fine ultimo della natura creata (finalismo antropocentrico), ma ne diventava "ministro" e "interprete" in virtù delle sue potenzialità di conoscenza e di dominio. Pur essendo soltanto un "nano" rispetto alle grandi autorità del passato, l'uomo moderno - il filosofo, lo scienziato, il politico del XVII secolo - riesce a vedere più lontano proprio perché sta sulle spalle di quei "giganti". Questa immagine - non nuova, ma allora molto diffusa - è emblematica dell'emergere di una nuova concezione (ancora oggi presente e operante) del progresso, inteso come accumulo delle conoscenze nel tempo, come prodotto di una continua elaborazione mai definitivamente conclusa. Questo diverso modo di operare presuppone la pubblicità dei risultati raggiunti, mira unicamente all'utilità del genere umano e si fonda sulla cooperazione fra intellettuali, scienziati, tecnici e artigiani. Questa "collaborazione intellettuale" si realizzò, tra l'altro, nei frequenti rapporti tra i dotti, nei ricchissimi epistolari, nelle grandi accademie scientifiche del XVII secolo.
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