3.7 La "libertà d'Italia"
Il processo di autoidentificazione nazionale fu più precoce in campo letterario, linguistico e artistico che politico. Nel periodo in cui gli italiani avevano già maturato l'identificazione di una propria peculiare personalità linguistica, letteraria e artistica, erano infatti ben lontani dal percepire la penisola come uno spazio politico unitario. Permaneva, al contrario, la coscienza di appartenere a quadri di riferimento insieme più ristretti (l'ambito cittadino o regionale) e più vasti (la Chiesa, l'Impero). Nel pensiero di Dante Alighieri, per fare un esempio celebre, il ruolo eminente dell'Italia era prospettato per un verso nel quadro dell'Impero, per altro verso nel riconoscimento dell'esistenza legittima dei vari regni e dei principati che si spartivano il suolo italico. Cola di Rienzo era andato oltre e aveva immaginato un impero affidato, come nell'antichità, alla guida di Roma (una Roma, beninteso, "laica") e del popolo italiano raccolto intorno a essa. Con un decreto emesso nell'agosto del 1347 il tribuno aveva dichiarato libere tutte le città d'Italia e liberi tutti gli italiani, conferendo a essi la cittadinanza romana e chiamandoli a ricostruire l'antica gloria di Roma; egli aveva inoltre stabilito che l'elezione dell'imperatore e la signoria dell'Impero spettassero all'Italia. Più che un progetto politico, quello di Cola di Rienzo era un sogno, e come tale cadde nel vuoto. Con sano realismo esso fu già archiviato dai contemporanei: "volea riformare tutta Italia all'ubedienza di Roma al modo antico - disse il cronista Giovanni Villani -; la detta impresa del tribuno era un'opera fantastica e da poco durare".
In realtà le vicende politiche dell'Europa tardomedievale avevano messo chiaramente in luce che il ruolo dell'unico Impero esistente, quello germanico, era ormai offuscato dalle monarchie nascenti e che, in mancanza di un punto di riferimento politico unificante - quale era, nello stesso periodo, la monarchia per i francesi, per gli inglesi o per gli spagnoli - l'individuazione della specificità italiana non poteva che orientarsi in altre direzioni. La lotta tra gli Stati regionali, l'impossibilità dell'emergere di uno di essi come Stato guida di un processo di unificazione nazionale, la conseguente politica dell'equilibrio sancita dalla pace di Lodi, qualificarono lo spazio politico italiano non come uno Stato, ma come un
sistema di Stati. Questa caratteristica policentrica non fu registrata dai contemporanei unicamente come un dato di fatto irriducibile e limitativo, ma addirittura esaltata come un valore che qualificava la specificità italiana rispetto al resto d'Europa: l'equilibrio degli Stati era la garanzia di fondo che preservava la "libertà d'Italia" e impediva la formazione, nella penisola, di un'unica e possente "tirannide".
Il principio della
libertà d'Italia rappresentò il punto più alto cui giunse, nel nostro paese, il processo di autoidentificazione nazionale in campo politico. Esso assumeva, in concreto, un doppio significato: da una parte "libertà d'Italia" significava mantenimento dell'indipendenza reciproca dei singoli Stati della penisola; dall'altra significava difesa di questo sistema dalla minaccia delle "potentie ultramontane", le grandi monarchie nazionali d'Oltralpe, avviate lungo percorsi molto diversi da quelli degli Stati italiani. Come nel caso degli altri temi già analizzati, anche questo, prettamente politico, circolò soprattutto nella schiera degli addetti ai lavori: uomini di cultura, individui impegnati in incarichi amministrativi e di governo, principi, papi. Il tema dell'unità e della libertà d'Italia contro gli stranieri, però, ebbe talvolta anche una circolazione più ampia, favorita dalle stesse aggressioni esterne. Le invasioni francesi, per esempio, provocarono la nascita di canti popolari contro gli stranieri, e sappiamo anche di soldati italiani che affrontavano le battaglie gridando "Italia, Italia".
Non sfuggiva certo ai contemporanei che il policentrismo della vita politica italiana avrebbe potuto tramutarsi (come accadde già all'epoca della discesa di Carlo VIII e poi tante volte ancora) in un vuoto politico e quindi in un fattore di debolezza e di sudditanza allo straniero. Ma la "libertà" era un principio troppo radicato nella tradizione plurisecolare dell'indipendenza comunale e regionale perché la si potesse facilmente mettere in secondo piano in nome di circostanze contingenti. C'era inoltre la fiducia che, all'occasione, gli Stati italiani avrebbero trovato nell'opposizione allo straniero, nella lotta contro il "barbaro", una comunità d'intenti e un'unità di azione.
Scrivendo nel 1513 il suo celeberrimo Principe, Niccolò Machiavelli auspicò, proprio nel capitolo conclusivo dell'opera, che un nuovo signore si ponesse a capo dell'Italia "che è pronta e disposta a seguire una bandiera, pur che ci sia uno che la pigli". E aggiunse: "Quali porte se gli serrerebbano? quali populi gli negherebbano la obedienza? quale invidia se gli opporrebbe? quale Italiano gli negherebbe l'ossequio? A ognuno puzza questo barbaro dominio". Si è spesso visto, in queste parole, un precorrimento dell'idea moderna dello Stato nazionale italiano, e di Machiavelli si è fatto un patriota ante litteram. Questa interpretazione è eccessiva, ma non c'è dubbio che Machiavelli partecipò con piena adesione ai sentimenti che aleggiavano in molti ambienti politici della penisola e avevano talvolta - come abbiamo visto - una circolazione più ampia. Espressioni come "il comune benessere d'Italia" o "la libertà e l'indipendenza d'Italia" erano diventate di uso comune nel linguaggio diplomatico degli Stati italiani, ed era inevitabile che di fronte al predominio straniero ci fosse chi auspicava una loro traduzione nella politica concreta, in un afflato unitario dei singoli Stati italiani. Come poi siano andate le cose e come l'Italia si sia trovata per secoli divisa e quindi debole rispetto alle potenze straniere è argomento che riguarda appunto le concrete vicende storiche e non i sentimenti e i progetti degli uomini.
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