5. L'Impero di Carlo V e la lotta per l'egemonia
5.1 L'ascesa di Carlo V
Gli anni in cui Martin Lutero si ribellò alla Chiesa di Roma e la Riforma protestante divise il mondo cristiano, furono quelli in cui si assistette anche all'ultimo grande tentativo di dar vita a un'egemonia imperiale in Europa. Nel 1519 Carlo d'Asburgo fu eletto imperatore col nome di
Carlo V. Re di Spagna dal 1516 - era nato infatti dal matrimonio fra Giovanna la Pazza (figlia di Ferdinando d'Aragona e di Isabella di Castiglia) e Filippo il Bello (figlio dell'imperatore Massimiliano), Carlo V si trovò così a governare, oltre che sulla Spagna, con i territori annessi di Napoli, Sicilia e Sardegna, anche sulle terre familiari degli Asburgo in Austria e in Boemia, sulla Fiandra e i Paesi Bassi e sui territori appartenenti all'Impero. Carlo V avanzava anche pretese dinastiche sulla Borgogna, che i francesi avevano sottratto agli Asburgo (
3.2). Era dai tempi di Carlomagno che un sovrano non possedeva, in Europa, un dominio così vasto. Ma in più del suo lontano predecessore Carlo V era padrone anche delle immense colonie spagnole: del suo Impero poteva davvero dirsi che il sole non vi tramontava mai.
Per diventare imperatore, Carlo aveva dovuto ingaggiare una lotta accanita con un altro candidato al trono, il re di Francia
Francesco I (1515-47). Agli occhi dei principi elettori tedeschi i due candidati si equivalevano: ambedue erano, infatti, "stranieri" (Carlo era nato a Gand, in Fiandra, Francesco era francese), e se il re di Spagna poteva vantarsi di essere il nipote del defunto imperatore, il re di Francia aveva dalla sua l'appoggio del papa Leone X dei Medici (1513-21) - figlio di Lorenzo il Magnifico - timoroso che il sovrano spagnolo, già padrone dell'Italia meridionale, acquisisse anche la corona imperiale. Il vero protagonista di questa lotta fu il denaro: i sette elettori cui spettava la nomina misero letteralmente in vendita i loro voti, che Carlo acquistò a carissimo prezzo (quasi un milione di fiorini, corrispondente al bilancio annuale di uno Stato di medie dimensioni). Per il suo successo fu decisivo l'appoggio finanziario garantitogli dai banchieri tedeschi Welser e, soprattutto, Fugger. Qualche anno dopo il banchiere Jakob Fugger ricordò l'episodio all'imperatore senza mezzi termini: "È cosa nota a tutti, e chiara come il giorno - scrisse - che senza di me Vostra Maestà imperiale non avrebbe potuto ottenere la corona romana".
La rivalità tra Francesco I e Carlo V per il trono imperiale fu solo l'anticipazione di una lotta accanita, destinata a durare decenni e a lacerare profondamente l'Europa: Spagna e Francia erano le due più grandi potenze del continente e la loro fu una lotta per l'egemonia. Teatro ne fu l'Italia, che era sempre il paese più ricco, più popolato, più colto d'Europa. Qualsiasi regno con aspirazioni di primo piano doveva concretizzarle con una presenza politica significativa sul suolo italico: motivi economici, strategici e di prestigio facevano della penisola una preda ambita.
Per Carlo V aveva un'importanza strategica fondamentale il Ducato di Milano, il cui controllo avrebbe messo in comunicazione i due nuclei principali del suo dominio, Spagna e Germania. Il Ducato controllava, infatti, i porti liguri - Genova in particolare - che mettevano in comunicazione la penisola iberica e la pianura padana. Se per l'imperatore era vitale il controllo di questo corridoio strategico, per il re di Francia era vitale impedire che esso cadesse in mani spagnole: la Francia ne sarebbe uscita territorialmente soffocata.
Da questo scontro di interessi nacque la guerra. Una serie di insuccessi francesi culminò nella disfatta di Pavia del 1525, nella quale lo stesso Francesco I cadde prigioniero. L'imperatore pose sul Ducato di Milano, come vassallo, Francesco II Sforza.
La vittoria di Pavia fu dovuta non solo ai cospicui mezzi finanziari di cui disponeva l'imperatore (cominciava proprio allora ad affluire il fiume d'oro delle miniere americane), ma anche all'adozione, da parte dell'esercito spagnolo, di un nuovo modo di combattere. Carlo V impiegò, infatti, in misura massiccia, la fanteria, composta di fanti armati di moschetto e di fanti armati di picche. I moschettieri creavano ampi vuoti nelle schiere di cavalleria lanciate al loro attacco e si ritiravano protetti da un quadrilatero di picchieri che subentravano nelle fasi decisive del combattimento: i cavalli andavano a infilzarsi nel muro delle loro picche, mentre i cavalieri nemici venivano disarcionati con gli uncini delle alabarde e finiti a colpi di spada. Terminato lo scontro, la formazione di moschettieri e picchieri si ricomponeva, pronta a fronteggiare un nuovo assalto.
L'adozione di questa tattica dipendeva, almeno in parte, dal fatto che in Spagna mancava quella grande tradizione di cavalleria pesante che aveva caratterizzato gli eserciti francesi fin dai tempi di Carlomagno. Le aride campagne spagnole mal si prestavano all'allevamento dei cavalli da battaglia e, di conseguenza, le stesse tradizioni della nobiltà spagnola erano molto meno intrise di passione per la cavalleria. I nobili spagnoli, al contrario dei loro colleghi francesi, accettavano quindi di buon grado di arruolarsi come ufficiali di fanteria.
La battaglia di Pavia e gli altri scontri che seguirono confermarono pertanto il rapido declino della cavalleria come arma fondamentale d'attacco e l'ascesa della fanteria composta di archibugieri e picchieri come arma di difesa. Col tempo, il ruolo dei moschettieri (i cui archibugi, notevolmente perfezionati, erano in grado di perforare qualsiasi corazza fino a 200 metri) sarebbe aumentato considerevolmente fino ad assorbire in sé quello dei picchieri: questo accadde quando la picca si trasformò in baionetta, fissata alla bocca del moschetto.
Deportato in Spagna, lo sconfitto monarca francese fu costretto a firmare il trattato di Madrid (1526), con il quale, in cambio della libertà, s'impegnò a concedere a Carlo V Milano e la Borgogna (che ancora Carlo V, pur reclamandone diritto, non possedeva). L'Europa assistette sorpresa e impaurita al trionfo di Carlo V: il fantasma dell'Impero era diventato realtà e quel sovrano sembrava davvero in grado di riunire il mondo cristiano sotto il suo dominio.
Tornato in patria, Francesco I si comportò da spergiuro: disse che il trattato di Madrid gli era stato estorto sotto costrizione e di non aver alcuna intenzione di rispettarlo. La Borgogna restò in mani francesi. L'imperatore dichiarò fellone il suo rivale e lo sfidò a duello: quel sovrano che disegnava grandi progetti, nella realtà del suo tempo era anche un uomo del passato e provava emozioni da cavaliere medievale: "L'idea di risolvere una guerra mediante un duello tra i due capi di Stato - ha scritto Federico Chabod - non deriva soltanto dal fatto che la lotta politica è completamente "personalizzata", che il problema statale è visto soltanto attraverso la figura del principe e della dinastia; bensì è necessariamente collegata anche con un sentimento ancor più lato, non limitato al campo politico e invece spaziante per ogni dove, che è il sentimento "cavalleresco"". Quel duello personale naturalmente non si tenne mai, ma lo scontro tra le due potenze proseguì con accanimento.
Torna all'indice