10. La decadenza dell'Italia
10.1 L'industria
Durante la crisi del '600 l'Italia perse quella posizione di primato nell'economia europea che aveva avuto nel Medioevo e aveva ancora conservato nel secolo precedente. Da questo punto di vista, il '600 fu un'epoca di profonde trasformazioni negli equilibri continentali: economie maggiormente dinamiche come l'inglese, l'olandese e anche la francese, riuscirono non solo a superare la crisi, ma ad uscirne rafforzate, occupando spazi consistenti nei mercati europei ed extra-europei; economie meno dinamiche e meno capaci di trasformarsi, come l'italiana e la spagnola, ne uscirono invece in una posizione marginale e indebolite rispetto alla concorrenza straniera.
Anche in Italia la tendenza depressiva ebbe probabilmente origine da quella polarizzazione della ricchezza che può essere considerata - pur nella notevole varietà delle situazioni locali - come il dato di fondo della crisi europea (
8.1): aumento degli affitti e della rendita fondiaria da un lato, contrazione dei redditi popolari dall'altro in conseguenza della crescita demografica. Anche in Italia questa tendenza creò una sorta di corto circuito che soffocò il meccanismo espansivo: il decremento dei redditi popolari fece scemare la richiesta sui mercati e provocò una diminuzione dei prezzi.
Nella nostra penisola la crisi ebbe però anche caratteristiche peculiari, che occorre analizzare settore per settore. Essa non colpì contemporaneamente tutte le regioni italiane, ma i suoi primi segni si manifestarono chiaramente già alla fine del '500. I dati riguardanti la più importante industria dell'epoca, quella tessile, sono convergenti. A Venezia la produzione laniera passò dai 29.000 panni circa del 1602 ai 2200 degli ultimi anni del secolo; la produzione della seta, dai 10.000 drappi degli inizi del '600 ai 2300 del 1660 circa. Nella seconda metà del '500, Padova contava circa 40 botteghe dell'Arte della lana: già nel 1611 esse si erano ridotte ad appena 6. Agli inizi del '600 l'industria della seta di Como contava più di 30 telai in attività; nel 1650 ne restavano soltanto 2. Analoghi i dati relativi a Milano: ai primi del '600 erano attive, nella città, circa 70 botteghe, che nel 1682 erano ormai ridotte a 5. Anche il declino dell'industria laniera di Firenze, che nel '500 era stata la più grande della penisola, fu progressivo e inarrestabile: dai 30.000 panni della metà del '500 si passò ai 13.000 degli inizi del secolo seguente, ai 9000 degli anni '20, ai 6000 della metà del secolo, per arrivare ai 1500 degli inizi del '700. A Napoli l'industria della seta subì un colpo talmente duro da estinguersi. Le esportazioni di tessuti di seta dal porto di Genova si ridussero drasticamente: i dazi sulle esportazioni, che nel 1565 rendevano 24.000 lire, si ridussero, alla fine del '600, a un valore di 3000 lire circa.
Questo crollo delle industrie nelle grandi città fu solo parzialmente compensato dal successo economico di alcuni centri minori come Verona, Prato, Piacenza, Biella, Vigevano, Varese e tanti altri, dove si diffuse la lavorazione non solo della lana, ma anche del lino e del cotone. Un forte impulso ebbe, nelle campagne, la produzione della seta greggia e di filati di seta: in Toscana come nel Veneto, in Emilia come in Lombardia e in tante altre regioni, la diffusione della coltivazione del gelso ebbe infatti una crescita imponente. Le esportazioni italiane di seta greggia e di filati di seta venivano destinate alle industrie francesi, inglesi, olandesi, dove il materiale veniva lavorato e riesportato. Si verificò dunque, sotto questo profilo, una riconversione dell'economia italiana, dalla produzione di panni di lana e di drappi di seta, a quella di seta greggia e filati di seta, vale a dire dalla produzione di manufatti a quella di materie prime e di semilavorati.
La crescita di queste forme di industria rurale non riuscì tuttavia a compensare il crollo delle attività manifatturiere urbane. La filatura della seta era infatti un'attività secondaria, che garantiva margini di guadagno più limitati e che poco si distingueva dall'attività agricola. Veniva così meno quel ruolo trainante dell'economia urbana che era stato il dato di fondo della storia italiana nel Medioevo e durante la prima età moderna.
Fenomeni come questi parlano chiaro: l'Italia, che nel Medioevo aveva dominato i traffici europei e inondato il continente dei suoi tessuti, era diventata il paese che riforniva le industrie altrui di seta da lavorare. La penisola assumeva dunque una diversa collocazione nel mercato internazionale, che la vedeva ormai in un ruolo passivo e dipendente.
Non bisogna tuttavia dimenticare, quando parliamo di industrie in riferimento a questo periodo della storia europea, che esse non avevano lo stesso ruolo dominante che hanno nelle odierne economie industriali. Per comprendere pienamente questa affermazione, basta riflettere su alcuni dati: l'intero valore, espresso in termini monetari, dei panni di lana prodotti a Venezia ai primi del '600 ammontava a circa 1.200.000 ducati. Ebbene: grosso modo nello stesso periodo una galera veneziana proveniente dal Levante poteva trasportare, in un solo viaggio, merci per un valore di 500.000 ducati. Secondo il fisco veneziano, il valore del reddito fondiario delle proprietà sulla terraferma dei cittadini veneziani ammontava a 13 milioni di ducati all'anno. Dal confronto tra questi dati riguardanti l'industria tessile da un lato, il commercio e il reddito fondiario dall'altro, emerge chiaramente che in una delle economie più evolute dell'epoca (quale era appunto quella veneziana), il settore di gran lunga predominante era l'agricoltura, seguito dal commercio e dall'industria. La crisi italiana andrà dunque valutata con particolare riferimento al commercio e all'agricoltura.
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