12. L'Europa nell'età di Luigi XIV
12.1 L'assolutismo di Luigi XIV
"All'alba del 10 marzo 1661, il giorno dopo la morte di Mazzarino, il ventiduenne Luigi XIV convocò nel suo studio privato soltanto tre uomini. Non appartenevano alla sua famiglia, non erano né prelati, né generali, né grandi signori feudali [...] erano stati al servizio del cardinale scomparso e la loro nobiltà era alquanto recente. Luigi, senza indugio, li informò che da allora in poi avrebbe regnato da solo, senza nominare alcun primo ministro, e che essi avrebbero dovuto fornirgli il loro parere, quando gliel'avesse richiesto: ne avrebbe tenuto conto o no, a sua discrezione". Così lo storico francese Pierre Goubert descrive l'inizio del regno effettivo del giovane re. Nel 1643, a cinque anni,
Luigi XIV era succeduto al padre Luigi XIII, ma il governo del paese fu tenuto, come sappiamo, dal Mazzarino - consigliere, amico e amante della regina-madre e reggente Anna d'Austria.
Per oltre 54 anni, fino alla morte avvenuta il 1° settembre 1715, Luigi XIV avrebbe regnato sulla Francia dominando l'intera scena europea. Non fu un periodo di pace, perché per trent'anni la Francia fu in guerra, spesso contro quasi tutto il resto d'Europa. Non fu un periodo di benessere per il popolo francese, vessato da una dura imposizione fiscale e colpito da ricorrenti carestie (devastanti furono quelle del 1693-94 e del 1709-10). Ma fu un periodo di "gloria" - uno dei valori più apprezzati e celebrati dai ceti superiori della società del tempo. La gloria legata all'audacia delle gesta militari si accompagnò al rafforzamento della monarchia e ispirò molte iniziative del sovrano. Anche se l'aggressiva politica estera francese fu a più riprese contenuta (ma mai definitivamente sconfitta), Luigi XIV riuscì a consolidare l'egemonia continentale della Francia e si impose come modello a tutti gli altri sovrani assoluti. L'egemonia della Francia ebbe anche altri connotati: in quegli stessi anni, infatti, il francese si affermò non solo come la lingua della diplomazia, ma anche come lingua parlata e scritta - e sistema privilegiato di comunicazione - di tutta l'élite nobiliare dell'Europa centrorientale.
Nel 1661 terminò dunque l'epoca dei grandi ministri che avevano guidato la politica francese per quasi un quarantennio. Luigi XIV accentrò nelle sue mani il governo dello Stato circondandosi di ministri e collaboratori capaci, ma senza rinunciare mai al suo diretto intervento nelle principali questioni. Le decisioni di maggior rilievo venivano prese in un Consiglio ristretto o supremo, formato dal re e da tre ministri (Esteri, Guerra e Finanze). La carica più importante fu quella del controllore generale delle finanze, che estendeva la sua giurisdizione a tutti gli aspetti della politica interna. Dal 1665 al 1683
Jean-Baptiste Colbert (1619-83) ricoprì questo ruolo e fu il principale collaboratore del re e l'ispiratore della politica economica (
12.3). Altre figure di rilievo furono Michel Le Tellier, ministro della Guerra, e soprattutto il figlio François Michel, marchese di Louvois, che ricoprì la stessa carica fra il 1666 e il 1691 e riorganizzò profondamente l'esercito.
L'accentramento amministrativo si espresse nell'impiego degli intendenti, che videro potenziati i loro poteri e le loro competenze: in questo campo Luigi XIV proseguì l'opera di Richelieu e Mazzarino, avvalendosi di un personale burocratico di origine borghese e di recente nobilitazione (nobiltà di toga), spesso legato con vincoli clientelari o di parentela agli esponenti di spicco dell'amministrazione (Colbert e Le Tellier). Si trattava di un personale limitato nel numero (un centinaio ai livelli più alti e un migliaio a quelli inferiori), ma estremamente efficiente e di provata fedeltà al sovrano. I governatori provinciali, appartenenti alla tradizionale nobiltà di spada, videro ridotto a tre anni il periodo di durata della carica che venne progressivamente svuotata dei suoi poteri. L'amministrazione centralizzata dello Stato assoluto tendeva infatti, più che a sostituirsi formalmente, a sovrapporsi alle strutture preesistenti, depotenziandole di fatto. Anche i poteri dei parlamenti vennero circoscritti limitando le loro facoltà di proporre osservazioni (rimostranze) all'iniziativa legislativa del re.
Ma il "capolavoro" dell'assolutismo di Luigi XIV fu
Versailles, sia perché vi fu concentrato tutto il potere, sia per la "rappresentazione" del potere che vi si svolgeva. La costruzione di una nuova reggia in una località distante una ventina di chilometri da Parigi, dove la corte e il governo si trasferirono nel 1682, sottrasse la monarchia agli eventuali pericoli di sommosse cittadine (come era stato nell'adolescenza di Luigi XIV, al tempo della Fronda). L'obbligo imposto alla grande nobiltà di risiedervi e i vantaggi che essa ne trasse, in termini di pensioni e di donativi, sancirono il definitivo asservimento dell'aristocrazia. La vita a corte era regolata da rigide prescrizioni - l'etichetta - e da un complesso cerimoniale fondato su una minuta scala di precedenze (p. 296). L'etichetta fu la rappresentazione simbolica della nuova gerarchia del potere e della "distanza", ormai codificata in innumerevoli livelli, fra il re e i vari esponenti della nobiltà: il sovrano non era più "il primo dei gentiluomini", un primus inter pares (primo fra pari) - come voleva l'antica concezione nobiliare - ma l'artefice principale di un sistema di distinzione gerarchica, duramente contestato dai difensori della tradizione.
L'esercizio di un dominio assoluto fu accompagnato dalla ricerca di tutto ciò che poteva accrescere il prestigio della Francia e del suo re. Se infatti Luigi XIV aveva scelto il Sole come proprio emblema (sarà infatti chiamato il
Re Sole), il suo regno doveva trarre sempre nuovo splendore dalle iniziative del sovrano. In questa prospettiva va inserito il patrocinio delle arti e delle scienze promosso dal re e da Colbert. Accanto alla Accademia delle Scienze (
11.5) furono potenziate le accademie artistiche e letterarie esistenti e istituite quelle d'architettura e di musica. Scrittori, letterati e uomini di teatro (come Molière, Racine, Boileau) furono protetti e stipendiati. Il re e i suoi ministri favorirono la formazione di una cultura ufficiale, fortemente celebrativa, che trovò nell'oratoria del vescovo di Meaux, Jacques Bénigne Bossuet (1627-1704, che fu anche precettore del "delfino", termine che designava il primogenito dei re di Francia), la sua espressione più classica e autorevole. Questa politica culturale non poteva tollerare voci dissenzienti: così vennero introdotti o accentuati i controlli sulle tipografie e sugli stampatori, esercitata attentamente la censura, perseguitati gli autori e inviati al macero gli Scritti di opposizione.
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