14.3 L'Inghilterra
Su quali strutture politiche poggiò la supremazia inglese nel '700? Si è molto semplificato attribuendo al partito whig, che dominò la vita parlamentare tra il 1715 e il 1760 (durante il regno di Giorgio I e di Giorgio II), una sorta di rappresentanza diretta del mondo commerciale. E i contemporanei insistettero su una contrapposizione tra i whigs, rappresentanti del moneyed interest, e i tories, esponenti del landed interest, ossia fra gli interessi del denaro e quelli terrieri. La contrapposizione era stata effettivamente tale all'epoca della seconda rivoluzione e nel venticinquennio successivo (
12.4), ma l'equilibrio degli interessi, raggiunto in seguito, avrebbe molto attenuato i contrasti di un tempo. Nessun gruppo o forza politica ostacolò quindi lo sviluppo delle attività commerciali e finanziarie, considerate la base della ricchezza del paese, né mise mai in discussione alcuni capisaldi del sistema inglese, come il predominio del Parlamento in materia fiscale o la confessione protestante dei sovrani. Infine, neppure i più conseguenti fra i tories furono a tal punto sostenitori della monarchia di diritto divino e della restaurazione giacobita da schierarsi attivamente a favore dei pretendenti cattolici della casa Stuart. Sia i tories che i whigs avevano una medesima origine nell'aristocrazia terriera (anche se quella whig era di formazione più recente). Più che un radicale contrasto sociale, dunque, le divergenze tra i due partiti stavano nelle differenti tradizioni politiche e religiose, e nella contrapposizione di fazioni parlamentari avverse. Su alcune questioni vi era in realtà piena concordanza di vedute. Significativa, ad esempio, è l'ampiezza del consenso con cui venne approvato nel 1723 il Black Act, una durissima legge (p. 364) contro la caccia di frodo e altre offese alle proprietà rurali, che aumentò di una cinquantina i reati per i quali poteva essere comminata la pena di morte.
Vincitori delle elezioni del 1715, i whigs erano soprattutto interpreti dei princìpi della "gloriosa rivoluzione", sostenitori della monarchia costituzionale e controllata dal Parlamento, e di un governo svincolato dagli arbitri del sovrano.
La Camera dei Comuni contava (dopo l'unione con la Scozia del 1707) 558 membri, di cui 45 scozzesi. Le circoscrizioni elettorali variavano grandemente per dimensione, senza alcun rapporto con il numero degli abitanti: talora avevano diritto a un seggio località praticamente disabitate con poche decine di elettori (i cosiddetti "borghi putridi", rotten boroughs). Cinque contee, e non certo le più popolose, si assicuravano un quarto dei seggi. Alcuni parlamentari erano nominati direttamente dai lords; altri avevano acquistato i loro seggi o la proprietà di un borgo che dava diritto a un seggio. In genere il diritto di voto, legato al censo, era concesso ai proprietari terrieri con una rendita minima di 40 scellini, e comprendeva in genere i piccoli contadini indipendenti: questi erano, tuttavia, spesso anche affittuari di un signore e quindi interamente soggetti alla sua influenza. Dodici borghi (fra cui Westminster) godevano del suffragio universale maschile, ma uno di questi (Gatton nel Surrey), ad esempio, era composto di sole sei case e aveva un solo elettore. Come molte altre istituzioni inglesi, la Camera dei Comuni era il risultato di una somma di secolari privilegi e di nuovi diritti e prerogative.
Clientele e vincoli di parentela, espressione di un'oligarchia molto ristretta, dominavano ai Comuni. Il caso di un membro che contasse una cinquantina di parenti in Parlamento non era affatto un'eccezione. Per fare carriera in politica era indispensabile entrare nell'orbita di chi esercitava il patronage (al tempo stesso protezione e facoltà di nomina alle cariche militari e civili) ossia delle figure più influenti della Camera dei Comuni o di quella dei Lords (come Thomas Pelham-Holles, duca di Newcastle, che controllò il patronage governativo per circa quarant'anni). Questi intrecci di interessi e favoritismi sfociarono spesso nella corruzione più smaccata, strumento di controllo della vita parlamentare. Tipici di un'atmosfera e di un costume furono anche gli stretti legami fra affari e politica: non solo gli uomini di governo, ma anche i membri della corte erano pronti a lasciarsi coinvolgere in rischiose operazioni finanziarie e speculative.
Nel 1720, quando la Compagnia dei Mari del Sud, che aveva ottenuto la conversione di parte del debito pubblico in azioni della compagnia (trasformando i creditori dello Stato in azionisti), fallì e scoppiò un grave scandalo (il South Sea Bubble), solo la consumata abilità politica e parlamentare di
Robert Walpole (1676-1745) riuscì a salvare il governo e la corte. Walpole emerse così come il leader dei whigs e si impose alla guida del paese per oltre vent'anni, fino al 1742.
Agli inizi del '700, la struttura e i modi di funzionamento del governo inglese erano tutt'altro che definiti: non chiari i poteri del re e quelli dei ministri, nonché i rapporti reciproci. Il tutto era complicato dal fatto che Giorgio I non conosceva l'inglese e doveva esprimersi in francese o in latino. Walpole cominciò a presiedere le riunioni del comitato dei ministri e a riferirne al re. Si venne così gradatamente formando la tradizione di un governo di gabinetto, un governo da cui era assente il re, formato da ministri scelti in nome del re dal leader della maggioranza parlamentare sempre più responsabile solo di fronte al Parlamento. Era la prefigurazione di quel passaggio dalla monarchia costituzionale alla monarchia parlamentare che si realizzerà compiutamente nel secolo successivo.
Com'era nei programmi di Walpole, gli anni 1720-40 furono anni di stabilità e prosperità all'interno, di pace all'estero. Walpole risanò le finanze, adottò una politica fiscale moderata, mirò ad un'intesa con la Francia - senza tuttavia rinunciare alle posizioni di predominio in campo commerciale -, tenne l'Inghilterra fuori dalla guerra di successione polacca. Ma, alla fine degli anni '30, le pressioni di quanti sostenevano una politica di maggiore impegno internazionale imposero una ripresa delle ostilità nei confronti della Spagna (1739), la partecipazione alla guerra di successione austriaca e, infine, le dimissioni di Walpole.
Dopo un breve periodo di tensioni interne legate all'esplosione di una rivolta stuardista, terminata con l'annientamento dei clan scozzesi ribelli (battaglia di Culloden Moor, 1746), l'Inghilterra si votò interamente al rafforzamento dell'impero coloniale. Campione di questa politica, per molti aspetti opposta a quella di Walpole, fu un altro whig,
William Pitt, poi conte di Chatham (1708-1778), che guidò il paese ai successi contro la Francia (1757-61). Il 1759 fu un anno trionfale con gli inglesi vincitori nell'Atlantico, in India, in Canada, nelle Antille. Pitt fu l'interprete di un'Inghilterra dinamica e aggressiva, conscia dei propri obiettivi di sviluppo commerciale e di dominio mondiale e della necessità di stroncare l'ascesa francese.
Specchio della straordinaria vitalità del paese, che di lì a qualche anno si sarebbe espressa nella rivoluzione industriale, fu, per tutto il corso del '700, l'incremento della stampa quotidiana e periodica, presente su ogni questione politica e largamente diffusa anche nelle province. La tiratura delle gazzette più importanti passò dai 7.300.000 copie del 1750 ai 9.400.000 del 1760; nello stesso anno a Londra si pubblicavano quattro quotidiani, cinque-sei trisettimanali e una novantina di periodici.
Emblema di un'epoca, Pitt controllò la vita politica per un periodo relativamente breve perché già nel 1761 fu costretto a dimettersi (salvo tornare brevemente al governo nel 1766-68). Salito al trono nel 1760, il re Giorgio III cercò d'imporre i propri uomini contro il vecchio gruppo dominante whig e sostenne una pace moderata con la Francia (che fu in effetti stipulata a Parigi nel 1763).
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