16.5 L'assolutismo illuminato
Il discorso sull'Illuminismo non può esaurirsi in una analisi del rinnovamento culturale e ideologico. All'interno del movimento illuminista è possibile infatti individuare gli elementi di un disegno riformatore che mirava alla modernizzazione dello Stato e al raggiungimento della "felicità pubblica". La traduzione pratica di questi elementi di riforma rappresentò il tratto più significativo della politica interna di molti paesi europei nella seconda metà del secolo XVIII.
Nonostante gli aspetti di novità, la politica riformatrice si inseriva nel lungo processo di formazione dello Stato moderno che aveva preso le mosse alla fine del XV secolo. La lentezza e le difficoltà con cui si erano venuti definendo i poteri e le competenze dello Stato derivavano fra l'altro da un dualismo e da una contraddizione di fondo che caratterizzavano i nuovi organismi politici. La dinamica evolutiva dello Stato, infatti, se per un verso si fondava sul sostegno dei ceti (o ordini o Stände) e delle loro assemblee, per un altro teneva viva un'accesa conflittualità tra le rappresentanze dei ceti e il principe assoluto. Mentre in Francia questa conflittualità si era mostrata appieno già durante il governo di Richelieu e aveva raggiunto l'apice con le guerre della Fronda a metà '600, alle quali era seguito lo sviluppo incontrastato della monarchia assoluta, altrove questo itinerario era tutt'altro che compiuto.
Il problema nodale dei regimi assoluti, quello dell'amministrazione finanziaria e fiscale, appariva in Francia (e tale sembrava soprattutto ai contemporanei) sostanzialmente risolto in virtù della centralizzazione regia. Le altre monarchie assolute avvertirono, quindi, l'esigenza di introdurre maggiore efficienza e razionalità nell'amministrazione e di allargare i poteri dello Stato. Un'esigenza che le portava inevitabilmente a scontrarsi con quel sistema di privilegi, fiscali e giuridici innanzitutto, di cui godevano la nobiltà e il clero: un insieme di diritti e una struttura di potere che costituivano il fondamento del consenso alla monarchia da parte dei ceti dirigenti tradizionali, ma anche un limite essenziale allo sviluppo della società civile e dell'economia. Gran parte della storia politico-istituzionale del '700 ruota attorno all'asse rafforzamento dello Stato-riduzione e ridefinizione dei privilegi. In questo quadro va valutata la felice congiunzione creatasi tra iniziativa dei sovrani e programmi riformatori degli illuministi: una breve stagione, collocata tra gli anni '50 e '80, comunemente definita
assolutismo (o
dispotismo)
illuminato.
Protagonisti di questo periodo furono innanzitutto i sovrani: Maria Teresa e Giuseppe II in Austria, Federico II in Prussia, Caterina II in Russia; in Italia Carlo III nel Regno di Napoli e Pietro Leopoldo in Toscana. E accanto ai principi, gli illuministi che furono di volta in volta consiglieri, collaboratori e critici del loro operato. Né va dimenticato quel ceto di burocrati e funzionari illuminati che si sviluppò insieme alle riforme e costituì il tessuto connettivo indispensabile alla loro realizzazione. L'assolutismo illuminato fu costantemente sotto il controllo del mondo intellettuale, di quella che si veniva definendo come opinione pubblica (p. 398): un'élite ristretta ma cosmopolita, formidabile sostegno ideologico e propagandistico, che si esprimeva attraverso la stampa con una miriade di libelli e pamphlets.
Il primo e più deciso intervento riformatore investì, nei paesi cattolici, i poteri della Chiesa e degli ordini religiosi. Fu avviata o in qualche caso accentuata una politica ecclesiastica caratterizzata dalla volontà di estendere la giurisdizione e il controllo dello Stato sulla vita e l'organizzazione delle Chiese nazionali (
giurisdizionalismo) e di ridurre quella sorta di struttura giuridica parallela rappresentata dai diritti e privilegi ecclesiastici: diritti come quello d'asilo, che riconosceva l'immunità a quanti si rifugiavano nei luoghi di culto; o privilegi come quello che riservava ai soli tribunali ecclesiastici di giudicare anche reati comuni, come il furto e l'omicidio, quando fossero imputati a religiosi. Vennero messi in discussione la legittimità del tribunale dell'Inquisizione e il monopolio religioso dell'istruzione. Ragione e tolleranza scendevano in campo contro l'oscurantismo della Chiesa e in questa battaglia l'Illuminismo profuse il massimo del suo impegno ideologico e culturale.
Tra gli argomenti che alimentavano la polemica contro la Chiesa, ve ne erano alcuni che potremmo chiamare di "pubblica utilità": i conventi e la vita monastica apparivano espressioni di parassitismo; le cospicue proprietà terriere della Chiesa, difese dai vincoli di manomorta (che ne impedivano la vendita), erano ormai un ingiustificato ostacolo a quella circolazione dei beni e delle ricchezze che era ritenuta un potente stimolo al benessere dei popoli. E alle nuove voci degli illuministi facevano eco le vecchie, ma ancora diffuse polemiche dei giansenisti contro la mondanità della Chiesa.
Rafforzamento dello Stato, battaglia di princìpi, interessi economici fecero della politica ecclesiastica dell'assolutismo illuminato una tappa importante nella modernizzazione della società e delle mentalità. Fu una "rivoluzione dall'alto" che coinvolse essenzialmente gli strati superiori della società, ma suscitò, in genere, l'ostilità dei ceti popolari, soprattutto contadini, legati ai valori tradizionali. La combattività delle élites colte e l'energia dei sovrani si scontrarono, nella lotta contro il clero, con l'elemento politicamente più debole della società di antico regime, e ciò consentì alle riforme di essere particolarmente incisive.
Il risultato più appariscente e significativo fu l'espulsione della Compagnia di Gesù da molti paesi europei. Fino allora i gesuiti avevano goduto di grande prestigio ed esercitato una larga influenza sui ceti dirigenti; nei loro collegi si educavano i rampolli della nobiltà e spesso ai gesuiti appartenevano i confessori dei principi. Ma la loro disciplina, la dipendenza da Roma e un tipo di reclutamento estraneo alla tradizionale commistione con i ceti nobiliari (che caratterizzava molti altri ordini religiosi) li avevano resi invisi a molti. Soprattutto, i gesuiti erano in grado di mobilitare abilmente un fronte ostile a ogni tentativo riformatore e di tutelare i loro privilegi. Fu proprio la risoluta difesa dell'indipendenza delle missioni gesuite del Paraguay (
13.8) che indusse il ministro portoghese Sebastiano di Pombal a coinvolgerli in un preteso complotto contro il re del Portogallo e a espellerli dal paese nel 1759. Nel 1764 la Francia seguì l'esempio di Pombal. Carlo III di Spagna adottò lo stesso provvedimento nel 1767 e i gesuiti furono cacciati da tutti i territori spagnoli e dal Regno di Napoli. All'espulsione seguiva l'incameramento dei beni da parte dello Stato. La dilagante polemica anti-gesuita e la pressione dei sovrani costrinse nel 1773 il papa Clemente XIV a sopprimere la Compagnia di Gesù (che sarà tuttavia restaurata nel 1814).
Nell'altro grande settore di intervento dell'assolutismo illuminato, quello amministrativo, le riforme mirarono a rendere più razionale la macchina statale sia ai vertici che alla base. L'obiettivo era quello di definire le competenze dei singoli organismi, di concentrare le decisioni, di riorganizzare le giurisdizioni attraverso tentativi di codificazione che riducessero il particolarismo e l'incontrollabile varietà delle norme, infine di rendere efficace la raccolta e la distribuzione delle risorse economiche. Si venne così formando quella struttura organizzata in dipartimenti o ministeri con cui ancor oggi identifichiamo l'amministrazione pubblica.
Le finanze rimanevano al centro della preoccupazione dei governi. Una parte cospicua delle entrate veniva destinata alle spese militari e proprio dall'esigenza di risanare le finanze dissestate dalle guerre venivano le maggiori sollecitazioni alla riorganizzazione del sistema fiscale. In questo come in altri campi, l'opera fu resa più agevole dai quasi trent'anni di pace che seguirono la conclusione della guerra dei Sette anni (1763). In molti Stati, ma soprattutto in Austria e nei suoi domini, fu avviata l'imponente impresa della redazione di un
catasto dei beni terrieri e immobiliari (attraverso una precisa misurazione e descrizione delle proprietà) destinata a migliorare e a differenziare l'imposizione fiscale, a renderla quindi se non più equa almeno più certa.
In politica economica la maggior attenzione fu rivolta all'agricoltura, non solo perché la terra rimaneva il principale settore produttivo, ma perché era necessario rispondere a una crescente domanda di generi alimentari legata allo sviluppo demografico e alla necessità di evitare il pericolo delle carestie. Nell'Europa centrale la promozione dell'agricoltura fu accompagnata dal tentativo di ridurre, almeno nelle terre demaniali, le forme feudali più oppressive, in particolare le servitù personali.
L'assolutismo illuminato si colloca cronologicamente in una congiuntura favorevole per l'economia europea: non sembra tuttavia convincente l'ipotesi, frequentemente avanzata, di un nesso molto stretto fra sviluppo economico e sociale e riforme, quasi una sorta di adeguamento delle istituzioni alla dinamica di una società e di una economia in espansione, ma ancora costrette in vincoli troppo rigidi. Si tratta di una metafora affascinante e semplificatoria presente nelle visioni dialettiche del processo storico, che non trova conferme in una analisi più attenta. Infatti i paesi in cui tale sviluppo era stato più forte, Inghilterra e Francia, furono, per diversi e talora opposti motivi, fuori dal movimento riformatore. L'Inghilterra perché ormai inserita in un sistema politico costituzionale; la Francia, invece, perché un ulteriore sviluppo dell'assolutismo avrebbe messo in gioco i difficili equilibri della società per ceti. Nel resto d'Europa la vitalità economica e sociale non era in grado di esprimersi attraverso ceti - come quelli borghesi - solo parzialmente consapevoli della necessità di un programma politico alternativo all'assolutismo. Infine un limite invalicabile al riformismo settecentesco fu quello posto dalla struttura del privilegio, nobiliare innanzitutto, contro il quale le monarchie illuminate non potevano spingersi senza mettere in discussione le loro stesse basi di legittimazione.
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