17.7 Problemi e prospettive della società industriale
Le trasformazioni economiche e sociali sollecitarono la riflessione teorica sui temi della partecipazione politica e della riforma sociale. In questo ambito trovò la sua collocazione il radicalismo inglese che si affermò tra la fine del '700 e l'inizio dell'800. Questa nuova corrente condusse ad una rifondazione della filosofia politica, individuando nel criterio dell'utile il parametro di riferimento fondamentale per l'attività del singolo e delle istituzioni.
Secondo il principale esponente di questo orientamento utilitarista,
Jeremy Bentham (1748-1832, autore dell'Introduzione ai princìpi della morale e della legislazione, 1789), l'utilità è alla base dell'azione morale, che può essere giudicata e calcolata in funzione del piacere o del dolore che arreca all'individuo. Il medesimo criterio deve poter guidare l'attività legislativa il cui scopo è dunque l'utile comune ovvero "la massima felicità del maggior numero possibile di persone". Questo è ciò su cui deve fondarsi, rinunciando a riferirsi a norme immutabili, l'azione politica, la cui efficacia può essere misurata in relazione ai miglioramenti che è concretamente in grado di produrre.
Nell'ideologia dell'utile si riconobbe, nei primi anni del secolo XIX, un fronte ampio ed eterogeneo, comprendente intellettuali laici, industriali liberali e parte delle nascenti organizzazioni operaie, accomunati da un progetto riformatore volto ad adeguare la legislazione inglese alla mutata situazione sociale. Questa esigenza riformatrice nasceva in Bentham, e soprattutto nei suoi seguaci, dalla presa di coscienza che l'interesse generale non scaturiva automaticamente da una spontanea armonizzazione degli interessi dei singoli, come aveva ritenuto invece Adam Smith; e la spinta alle riforme era rafforzata dalla constatazione che gli squilibri e i costi sociali del sistema economico, nelle prime fasi dell'industrializzazione, sembravano contraddire l'idea di un progresso illimitato.
Anche il maggior teorico dell'economia "classica",
David Ricardo (1772-1823, autore dei Princìpi dell'economia politica e delle imposte, 1817), prese le distanze da una visione ottimistica ed equilibrata dello sviluppo economico. Se Smith si era proposto di identificare l'insieme dei meccanismi mediante i quali si accresce la ricchezza delle nazioni (
16.3), Ricardo spostò la sua analisi sugli elementi che concorrono alla formazione del prodotto complessivo e soprattutto sulla sua distribuzione fra le varie classi sociali. Il suo interesse era quindi rivolto non a definire criteri economici generali, ma a chiarire la struttura e il funzionamento di uno specifico modo di produzione: quello avviato dalla rivoluzione industriale.
Le categorie del sistema economico sono la
rendita, il
profitto e il
salario, sulla base dei quali si definiscono tre gruppi sociali: i proprietari terrieri, i capitalisti industriali e i lavoratori salariati. Tra di essi si distribuisce la ricchezza globale e da ciò nasce la conflittualità economica e sociale. Secondo Ricardo il profitto è la molla del nuovo sistema: ne deriva quindi che una sua compressione dovuta a benefici eccessivi sul versante della rendita fondiaria o del salario intralcerebbe lo sviluppo economico generale.
Negli anni in cui scriveva Ricardo erano ormai visibili i caratteri fondamentali di un nuovo sistema produttivo, che aveva preso avvio cinquant'anni prima e che si sarebbe affermato nel resto dell'Europa e negli Stati Uniti a partire dal 1830 circa. Un sistema che vedrà la progressiva affermazione del
capitalismo industriale come principale elemento propulsivo delle trasformazioni dell'intera realtà economica e sociale.
La diffusione del sistema di fabbrica e delle macchine, lo sviluppo dell'industria e dei servizi a scapito dell'agricoltura, la formazione di nuovi strati sociali (classe operaia e ceti medi) non sono che gli aspetti più significativi dei profondi mutamenti intervenuti nell'Occidente sviluppato a partire dalla fine del '700. Per tutti questi motivi la rivoluzione industriale ha assunto, con la rivoluzione francese, il valore periodizzante di inizio di una nuova età - quella
contemporanea. Un'età in cui, fra profondi squilibri e contrasti talora durissimi, si è registrata, per i paesi industrializzati e per una parte del mondo da essi dipendente, l'uscita dalla penuria alimentare e dalla povertà. Un'età dominata dall'ideologia del progresso e da una nuova mentalità, fatta di disponibilità continua al mutamento e di promozione di ulteriori mutamenti.
A distanza di duecento anni dalle sue origini, la rivoluzione industriale si è confermata come grande dispensatrice di benessere e di ricchezze materiali, ma non sempre di quella "felicità" che riformatori e utopisti avevano ritenuto dovesse essere il compito e il principale obiettivo del progresso economico e sociale.
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